Nel giorno di Natale viene pubblicato da HUFFPOST un
articolo-intervista a Massimo Cacciari. Il titolo scelto per presentare la riflessione del filosofo è eloquente, apparentemente provocatorio: "I cristiani sono i primi
ad aver dimenticato il Natale":"(...)Il
Natale degli alberi in pivvuccì, degli acquisti online e i centri commerciali
aperti tutto il giorno; il Natale della neve luccicante incollata sulle
vetrine, delle barbe bianche, delle renne e delle slitte... Basta sapere che la nascita di Cristo non ha niente a che vedere con
quello che vediamo intorno a noi. Il Natale è diventato un festa per bambini e
adulti un po' scemi. Non c'è da levare alti lai contro il consumismo. C'è solo
da riflettere, meditando con sobrietà e disincanto (...)".
Viviamo il tempo dell'aumento delle diseguaglianza e dell'esclusione -se non della soppressione- di coloro che non sono utili e funzionali al "sistema", e pare "impossibile" opporsi a questo spirito del tempo che sembra poter sconfiggere ogni resistenza al suo imperativo.
Massimo Cacciari invoca per la nostra società la necessita laica di ritrovare e riscoprire la necessità del confronto con l'impossibille, rappresentato dalla figura di Cristo): "(...) Perché è necessario avere come misura
qualcosa che ci oltrepassa per riuscire a spingerci altrove. Cristo non
predicava nei templi: predicava fuori, nelle strade. I suoi discepoli dicevano:
"È fuori". Nel senso: "È fuori di testa, è pazzo". Eppure,
Gesù ha segnato un prima e un dopo nella storia dell'uomo, ha creato il mondo
culturale e antropologico in cui viviamo. C'è qualcosa di più realistico di
questo? Senza quell'impossibilità niente ci spingerebbe a uscire da noi, a
ri-orientare diversamente le nostre vite.
Perché
dovremmo farlo? Per liberare il nostro tempo dalle sue miserie. Più la nostra
epoca cirinserradentro di essa, più servono grandi idee, pensieri limite,
parole ultime. Sono le uniche cose che ci possono sradicare dal tempo in cui viviamo."
Qui l'articolo-intervista a Massimo Cacciari)
Qui l'articolo-intervista a Massimo Cacciari)
Alla riflessione di Cacciari vogliamo accostre l'articolo di Maurizio Pagliassotti, pubblicato su IL Manifesto, perchè, trattando del dramma delle migrazioni di coloro che cercano di sfuggire a guerre, fame e povertà, l'articolo di Pagliassotti mostra una flebile luce di speranza nel comportamento eretico, "impossibile", di una comunità che decide di porsi "fuori dalle regole", misurandosi con l'impossibile più prossimo, per rispondere ad un principio di giustizia e di umanità superiore. " La popolazione locale ha fatto intendere chiaramente a istituzioni, sindaco e gendarmeria in testa, che loro vogliono essere una piccola isola di accoglienza".
Per chi è disposto a correre il rischio di morire assiderato, per chi è disposto a correre il rischio di incontrare dei lupi tra le foreste di larici e abeti, per chi è disposto a essere intercettato e respinto dalla gendarmeria francese che pattuglia le montagne, per tutti costoro una piccola casetta colorata di Briançon è il punto d’arrivo.
La salvezza è una piccola casetta colorata a Briançon.
di Maurizio Pagliassotti .
Fonte "Il Manifesto" 27.12.29017
Migranti. Nella struttura dieci volontari danno
ospitalità a 30 persone in arrivo dall’Africa. La popolazione locale ha fatto
intendere chiaramente a istituzioni, sindaco e gendarmeria in testa, che loro
vogliono essere una piccola isola di accoglienza
LA VOCE È CORSA fino a Ventimiglia, qualche mese fa: incastonata tra in mezzo alle Alpi francesi, a cento chilometri da Torino a circa dieci dal confine italo francese, esiste una enclave di umanità, rifugio per tutti coloro che stanno percorrendo la loro odissea che li porterà da un amico o un parente.
Il compito della gendarmeria è molto semplice: intercettare tutti coloro che tentano di arrivare in questa casetta a due piani, di proprietà comunale, che dista pochi metri dalla bella stazione ferroviaria. La gendarmeria li trova al confine del Monginevro, sul colle della Scala, lungo la linea fortificata del 1941 che corre sotto il monte Chaberton, ovunque. Una «caccia» resa ancora più semplice dal gelo e dalla neve, caduta in abbondanza per la gioia degli sciatori e la disperazione di chi tenta di passare dall’Italia alla Francia in ciabatte o poco più. Semplice perché l’ingresso nel paese da ovest, dall’Italia, ha una sola via e quindi basta mettersi al termine dell’imbuto per acciuffare tutti i sans papiers che arrivano. Oppure, ancora più semplice, la police potrebbe venire dentro l’enclave per fermare tutti, e fare piazza pulita, basterebbero dieci uomini e mezz’ora di tempo.
MA I GENDARMI non si presentano, preferiscono rimanere lungo le strade che dal confine portano a Briançon. Perché in questa bella cittadina turistica, circondata dai passi più sacri del Tour de France- Galibier, Izoard, Iséran – la popolazione ha fatto intendere chiaramente alle istituzioni, sindaco e gendarmeria in testa, che loro vogliono essere una piccola isola di umanità in un tempestoso oceano di inutile rancore. Ed è molto meglio per tutti se la police rimane dov’è. Così, da questa estate la Municipalità ha messo a disposizione di alcuni volontari una struttura che accoglie quelli che ce la fanno, dà loro un letto, un pasto, assistenza medica, e qualche consiglio su come continuare l’avventura.
LA STRUTTURA è molto discreta perché si trova nella parte bassa del paese, lontano dal delizioso centro medioevale e dalle piste di sci. Operano una decina di bénévoles, volontari di Briançon, che danno ospitalità a circa trenta tra uomini, donne e bambini in arrivo dall’Africa. Ogni giorno dall’Italia giungono tre o quattro ragazzi. Le condizioni climatiche estreme delle ultime settimane hanno disincentivato il flusso, perché il rischio di morire assiderati è alto. Spesso un’organizzazione italo francese riesce a intercettare prima i migranti, a salvare loro la vita – non senza fatica perché la meta sembra a un passo e molti hanno sviluppato una propensione al rischio fuori scala, anche di morte per congelamento, che li rende ciechi di fronte al reale pericolo della montagna – e a portarli nell’enclave di Briançon.
LORO, I MIGRANTI, in qualche modo passano e si materializzano sulla porta d’ingresso, spesso vestiti che dovrebbero essere piumini, ma sono solo plastica trasparente, ai piedi scarpette da tennis. La loro salvezza ha una porta d’accesso piccola che dà su una calda cucina, dove dentro enormi marmitte bolle sempre qualcosa.
La mattina del 25 dicembre non prevede particolari celebrazioni: in una pentola si gettano interiora di vitello, funghi, cipolle, e altra roba: è il piatto forte con cui si onora il gran varietà religioso, tra musica e serenità.Cucinano un ragazzo della Guinea, Lucky – la cui vita è una storia che fa accapponare la pelle, fatta di schiavismo, brutalità e razzismo, «ma se non fosse stato per il mio nome sarei già morto mille volte, o farei lo schiavo» – e una signora francese che indossa una tuta da sci viola, verde, blu, gialla. Nell’ufficio della responsabile di questo punto di paradiso, una donna austera e gentile con lunghi capelli grigi raccolti in un ordinato chignon, organizza la parte conclusiva dell’Odissea per ognuno di loro. Da questo luogo ghiacciato sulle Alpi francesi mancano esattamente otto chilometri alla libertà.
LA NORMATIVA transalpina prevede che i sans papiers possano essere rispediti in Italia se intercettati entro venti chilometri dal confine: qui a Briançon ci troviamo a dodici dal confine di Claviere, alta val Susa. Ma le caratteristiche delle enclaves è che sono circondate: e questa non fa eccezione. Se l’accordo tra popolazione, volontari e istituzioni prevede che tra queste stanze viga l’umanità, appena al di là ci si trova nuovamente in terra di nessuno. E così gli ultimi otto chilometri, ma in realtà sono ben di più perché si ha notizia di respingimenti avvenuti a Grenoble, sono disseminati di controlli lungo le statali che corrono verso Lione e Gap.
Il problema è evidente: evitare in ogni modo che la police li intercetti e li rispedisca al confine italiano, da cui potrebbero essere rispediti nuovamente a Foggia: il tutto in tre giorni.
UN RAGAZZO GHANESE basso e tozzo risponde alla fatidica domanda: «E tu dove vuoi andare?» puntando il dito in un lontano punto su una mappa della Francia, scandisce il nome della sua terra promessa: Nior.
Lui dice che solo quando sarà là «da un mio amico che mi aspetta», inizierà l’iter burocratico che lo porterà fuori da questo limbo. Gli mancano solo mille chilometri, ma dopo il deserto libico, gli schiavisti, le frustate, la fame, la sete, il carcere, il gommone in mezzo al mare, il centro di raccolta di Foggia, tutta l’italia attraversata con il terrore di essere intercettato, le Alpi attraversate a piedi in un mare di neve, ecco dopo tutto questo i restanti mille chilometri gli sembrano poca cosa, la parte conclusiva, e nemmeno troppo pericolosa, di un lungo cammino che coprirà «chaque coût», ad ogni costo.
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