lunedì 28 luglio 2014

Non dobbiamo dimenticare: Strage di via Palestro a Milano; assassinio di Beppe Montana

Dal blog "Io non dimentico": Non una parola nei vari TG riguardo i tragici anniversari delle stragi/attentati di Via Palestro (MI), di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Roma) occorsi tra il 27/28 luglio 1993... Eventi criminosi ancora oggetto di indagine. 
Ecco perché il silenzio? Forse. O forse i motivi sono  altri!
Non una parola per ricordare Rita Atria, preziosa testimone di giustizia che, non ancora maggiorenne, decise di farla finita con questa vita in seguito alla Strage di Via D'Amelio.
Beppe Montana
Non una parola per ricordare Beppe Montana, abile funzionario della Squadra Mobile di Palermo, ucciso il 28 luglio 1985. Non una parola!!! Proprio dopo l'uccisione di Chinnici, Montana aveva dichiarato:« A Palermo siamo poco più d'una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà"







Un Paese senza memoria è un Paese destinato a decadere, perché mai potrà crescere, mai potrà capire, mai potrà apprezzare i valori per cui vale la pena vivereMeglio parlare della nave... del ciclismo... della prova costume... del meteo bizzarro... di pseudo-riforme costituzionali...
Fare memoria è necessario. Ancor più necessario in un paese che a distanza di decenni non conosce gli autori delle stragi che hanno insanguinato questo paese. Il procuratore di Caltanissetta Roberto Scarpinato ebbe a dire: " Sono un centinaio le persone che nascondono i segreti delle stragi di stampo mafioso dell’inizio degli anni Novanta. (...)“La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo, sebbene condiviso da decine e decine di persone,  è il segno che su quel segreto è imposto il sigillo del Potere”.

La strage di Via Palestro a Milano. 
La notte del 27/28 luglio 1993 una bomba viene fatta esplodere. Muoiono i vigili del fuoco Carlo Lacatena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile urbano Alessandro Ferrari e Driss Moussafir, un immigrato che dormiva su una panchina. 
L'ennesima strage italiana, ancora ignoti e nascosti i mandanti.
L'ennesimo scempio di vite umane, l'ennesimo scempio di giustizia.

Fonte: LA Repubblica 27 luglio 2013

Via Palestro, la notte dell'orrore.
E dopo vent'anni nessuna verità

Il 27 luglio del 1993 a Milano l'attentato in cui persero la vita i vigili del fuoco Carlo Lacatena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile Alessandro Ferrari e Driss Moussafir, un immigrato che dormiva su una panchina. Dicono che su quella strage è sceso l'oblio: purtroppo no, è scesa la confusione all'italiana



Faceva caldo, quel luglio. E faceva 'caldo' in tutti i sensi. Gabriele Cagliari Raul Gardini morti entrambi, uno in carcere, l’altro a casa sua. Cancellati i protagonisti dello scandalo Montedison, il boiardo pubblico e il 'pirata' del capitalismo privato. L’inchiesta Mani Pulite che procedeva con i suoi arresti, le confessioni a centinaia. E all’inizio dell’anno, a gennaio 1993, c’era stata la cattura, dopo una vita da latitante, di Totò Riina, grazie all’allora 'capitano Ultimo'. Il quale a Milano, anni prima, aveva messo in ginocchio un clan di Cosa Nostra con l’inchiesta Duomo connection, che era stata coordinata da Ilda Boccassini, che a sua volta era in Sicilia, a indagare sulle stragi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulle autobombe scoppiate l’anno precedente a Capaci e in via D’Amelio.







Faceva caldo, in tutti i sensi, quella notte di luglio, quando in molte case tremarono i vetri, gli allarmi suonarono, i telefoni squillarono, quando via Palestro diventò una torcia. Allora, a differenza di oggi, non c’era così tanto rispetto per qualsiasi luogo del crimine. Avevo lasciato la moto accanto al benzinaio dei Giardini e m’ero precipitato il più vicino possibile al riverbero, quando inciampai negli stivali di un pompiere morto. «Ma non vedi dove vai!», mi urlò un suo collega, ma no, in effetti, no: vedevo e non vedevo. Così come oggi: sono passati vent’anni, è un po’ come allora, vediamo e non vediamo, sappiamo e non sappiamo. L’hanno sottolineato anche i giudici di Firenze, che questa, di tutte le stragi di mafia di quel periodo, è la più «oscura». 
In quella sera afosa e puzzolente l’esplosione aveva trasformato la strada in un tappeto autunnale di foglie. Gli alberi spezzati e ardenti, non lontano dalla tubatura del gas che alimentava fiamme incessanti raccontavano che i morti — ci perdonino i loro familiari — avrebbero potuto essere di più, rispetto al cratere, ai muri diroccati, ai pezzi di motore dell’autobomba entrati nelle case intorno, sfondando tetti e finestre. Una strage feroce: ma l’ora dello scoppio — le 23.15 — era diventata da subito anche l’ora delle domande. Dopo la bomba di Firenze, piazzata il 27 maggio 1993 sotto la torre dei Georgofili, si diceva: «Toccherà a Milano, ci aspettiamo un attentato a Milano».


Un mese esatto, eccolo. Un’autopattuglia dei vigili, “Monza 3”, viene mandata a verificare la segnalazione di un cittadino, «fumo da una macchina». Il fumo c’è, si chiamano i vigili del fuoco da via Benedetto Marcello. Procedura standard e un camper di turisti tedeschi, genitori e tre figli, viene mandato via appena in tempo. Se i morti sono pochi, è perché quelli che sono morti si sono sacrificati per gli altri. «Via via!», «Una bomba!». Il terrorismo religioso si esercita nel nome di un molto presunto dio combattente. Il terrorismo politico quasi sempre si annuncia e si spiega con le rivendicazioni. Il terrorismo mafioso è il frutto guasto di anni guasti. C’erano le stragi mafiose (Portella della Ginestra), c’erano gli attentati mafiosi contro rappresentanti dello Stato e «nemici» vari, da Boris Giuliano a Rosario Livatino, dal procuratore Costa alla mattanza (1983) di via Federico Pipitone, in cui il vero padre del pool antimafia, Rocco Chinnici, due carabinieri e il portinaio dello stabile persero la vita. Ma sino alla stagione di Totò Riina non era dato per esistente il terrorismo mafioso. Nasce sotto Tangentopoli: non prima, e non ci sarà dopo.

Anche per questo la bomba di quel 1993 è come se non avesse mai finito di ammazzare. Quella notte, e così per gli anni successivi, quando qualche arresto c’è stato, quando gli ergastoli sono fioccati, aleggiava e resiste ancora la domanda «milanese» più ovvia: ma perché proprio davanti al padiglione d’arte contemporanea? Ma che c’entra? Chi l’ha suggerito, come obiettivo strategico? Faceva caldo anche il giorno dopo. Le fiamme erano spente, ma nell’odore di guerra e morte, era come se gli atomi di polvere non si fossero posati. Bisognava tornare a casa e cambiarsi la camicia. Bisognava lavarsi i capelli, bisognava cercare qualcuno con cui parlare della bomba mafiosa di Milano. Poi i funerali, le polemiche, le lacrime, i discorsi, nessuno memorabile. In compagnia di quei morti che non trovano pace, siamo arrivati a una piccola svolta due anni fa, appena due anni fa: Gaspare Spatuzza, ultimo pentito di mafia, ha detto che la bomba non sarebbe dovuta scoppiare in via Palestro, ma «sotto al palazzo dei giornali». Vero o falso non sappiamo, ma più logico sì: certamente più logico.



Roma, attentati ai monumenti sacri. Firenze, attentato alla città antica e turistica. Milano, attentato al mondo dei mass media. Milano fu l’ultima tappa. In effetti, lo stragismo mafioso s’è chiuso in via Palestro: quella sera afosa chissà se sono inciampato senza volerlo negli stivali di Carlo Lacatena, Stefano Picerno, Sergio Pasotto. Morti i tre pompieri, insieme con il vigile Alessandro Ferrari, il primo che ha bloccato via Palestro, che s’è sacrificato ed è stato portato via dall’onda d’urto per venticinque metri. Il corpo era finito nel parco, e là c’era pure Driss Moussafir, che aveva per letto una panchina. Molti dicono che su via Palestro «è sceso l’oblio»: magari lo fosse, non è così, è scesa la confusione. Quella confusione politica, giornalistica, mentale che tutto oscura: quella polvere italiana che non si posa mai e sa nascondere i nostri peggiori assassini.



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