Libero Grassi, imprenditore palermitano, viene assassinato trent'anni fa, la sera del 29 agosto 1991, per essersi ribellato alla "legge" mafiosa del racket rifiutandosi di pagare "il pizzo". Come ogni anno da quella sera del 29 agosto 1991, a Palermo, nei pressi dell'abitazione dell'imprenditore assassinato, in via Alfieri sarà affisso un cartello come quello nella fotografia sottostante, dal momento che la famiglia di Libero Grassi non ha mai acconsentito all'apposizione di una lapide.
Dopo l'uccisione di Libero Grassi, sua moglie Pina Maisano ha continuato per anni la battaglia culturale contro le mafie iniziata dal marito. Nell'ultima intervista rilasciata in occasione del Premio Libero Grassi, Pina Maisano affermò ancora una volta: “Non mi rassegno a una Sicilia succube della mafia”. (qui la sua intervista)
in un artico de La Repubblica a presentazione del film-documentario prodotto dalla RAI e che ripercorre la vicenda di Libero Grassi così si legge: "(...) Catanese, di famiglia antifascista, l'ingresso nei meccanismi dell'imprenditoria grazie a un periodo a Gallarate, l'apertura dello stabilimento tessile a Palermo alla fine degli anni Cinquanta, Libero Grassi era attivo nella politica, con il Partito Repubblicano. E quando arrivano le prime richieste di racket, esce allo scoperto denunciando gli estorsori. E firmando, di fatto, la propria condanna a morte. Pagherà con la vita la sua opposizione pubblica alla cultura mafiosa convinto, com'era, che la lotta alla mafia dovesse coincidere con la sua professione.
Libero Grassi ha vissuto in anni in cui esisteva una logica di potere e di controllo della città di Palermo totalmente mafiosa. Si è ribellato con il coraggio di esporsi pubblicamente, usando i giornali e la televisione. E con la forza di una vita sempre vissuta, con la moglie Pina Maisano e i figli Alice e Davide, all'insegna dei principi della giustizia, della libertà individuale e della crescita collettiva (...)".
L'esempio di Libero Grassi è ancora oggi "pietra di paragone", ancor più per il fatto che, come sappiamo bene, la "linea della palma" (il potere delle cosche mafiose così definito da Leornardo Sciascia) ha raggiunto e conquistato "pezzi" dell'Italia intera.
A sinistra Libero Grassi e la moglie, Pina Maisano, in una immagine di famiglia. A destra, Pina Maisano dinanzi al cartello in cui si ricorda l'uccisione di Libero |
La lettera al "caro estorsore"
Alla richiesta del pizzo da pagare alle cosche mafiose, Libero Grassi aveva risposto in maniera coraggiosa e del tutto originale, inaspettata, facendo pubblicare una lettera dal Giornale di Sicilia in data 10 gennaio 1991. La lettera aveva un titolo chiaro, forte: «Caro estorsore...non ti pago!»
“Caro estorsore, volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui.“
Libero Grassi ospite di Michele Santoro
In un articolo pubblicato dall'Unita in data 28 agosto 2011 si raccontava l'intervista di Miche Santoro a Libero Grassi, nella trasmissione Samarcanda.
intervista di Libero Grassi ."Samarcanda". 11 aprile 1991
Fonte . L'Unità - 28 agosto 2011- articolo di Marcello Ravveduto
Il 10 gennaio 1991 Libero Grassi scrisse una lettera al “Giornale di Sicilia”:«Caro estorsore...non ti pago». Dopo 8 mesi, il 29 agosto 1991, Cosa nostra lo ucciderà con cinque colpi di pistola calibro 38. La lettera è una pubblica rottura dell'omertà: l’imprenditore, il cittadino, sottoposto alle minacce degli estorsori, non solo rifiuta di pagare, ma accusa commercianti ed imprenditori siciliani di soggiacere passivamente alla coercizione mafiosa. Il pizzo accettato come una tassa dovuta ad un sistema di potere parallelo, in cui sguazzano politici, imprenditori e mafiosi e la cui efficacia impositiva si misura in termini di silenziosa rassegnazione. La coraggiosa presa di posizione di Libero Grassi che denuncia apertamente e pubblicamente la richiesta di pizzo, ha un effetto paradossale: uno sconcertante, inquietante, isolamento. Il presidente palermitano di Assindustria, Salvatore Cozzo, legato a Salvo Lima, addirittura minimizza la denuncia defininendola "una tammurriata per farsi un po’ di pubblicità".
Il clamore suscitato dalla denuncia di Libero grassi ha tuttavia varcato i confini del capoluogo siciliano e il giormalista Michele Santoro invita Libero Grassi alla trasmissione Samarcanda per raccontare la sua storia. È l’11 aprile 1991. Libero Grassi è di fronte alle telecamere; lo sguardo è attento dietro gli occhiali da lettura.
La domanda del conduttore: "Lei si è trovato faccia a faccia con queste richieste di tangenti?"
La risposta di Libero Grassi: «Mi sono trovato più volte… ho subito due estorsioni, una rapina e altre intimidazioni». Poi Libero Grassi sposta il discorso su un tema scottante rivolgendosi al giudice Di Maggio presente in studio: «Il giudice di Maggio ha detto il primato della legge, il primato della politica, il primato della morale. Ma c’è un primato superiore quello della qualità del consenso… la formazione del consenso che poi è l’arma della mafia. La prima cosa che controlla la mafia… è il voto… ad una cattiva raccolta di voti corrisponde una cattiva democrazia… la legge la fanno i politici… se i politici hanno un cattivo consenso faranno delle cattive leggi e allora noi dobbiamo curare la qualità del consenso. La mafia in Sicilia è il maggior interlocutore del problema politico in quanto dispone del voto, dei soldi e degli inserimenti nell’amministrazione, perché oramai è diventata ceto dominante».
La risposta di Libero Grassi: «Mi sono trovato più volte… ho subito due estorsioni, una rapina e altre intimidazioni». Poi Libero Grassi sposta il discorso su un tema scottante rivolgendosi al giudice Di Maggio presente in studio: «Il giudice di Maggio ha detto il primato della legge, il primato della politica, il primato della morale. Ma c’è un primato superiore quello della qualità del consenso… la formazione del consenso che poi è l’arma della mafia. La prima cosa che controlla la mafia… è il voto… ad una cattiva raccolta di voti corrisponde una cattiva democrazia… la legge la fanno i politici… se i politici hanno un cattivo consenso faranno delle cattive leggi e allora noi dobbiamo curare la qualità del consenso. La mafia in Sicilia è il maggior interlocutore del problema politico in quanto dispone del voto, dei soldi e degli inserimenti nell’amministrazione, perché oramai è diventata ceto dominante».
Santoro lo interrompe e lo stuzzica: "Perché non vuol pagare, lei è pazzo?"
Libero Grassi non ha sussulti, non si scompone, è quasi immobile: «Non sono pazzo, non mi piace pagare perché è una rinunzia alla mia dignità di imprenditore (significherebbe che) io divido le mie scelte con il mafioso». Si ferma per un istante prende un foglio dalla cartellina e legge una dichiarazione del giudice Luigi Russo in merito alle estorsioni: «Si può anche non pagare, ma chi non paga deve sapere bene cosa gli succede prima o poi… se tutti facessero così (non pagando) dalla Sicilia sparirebbero le imprese e migliaia di piccole aziende andrebbero in fiamme».
Ora Libero si agita sulla poltrona e sgrana gli occhi guardando fisso il giornalista: «Dico al dott. Luigi Russo che lui dice se tutti si comportassero come me si distruggono le industrie, se tutti si comportano come me si distruggono gli estorsori non le industrie». Con un gesto d’impeto toglie gli occhiali e tira un sospiro ad occhi chiusi.
Dopo oltre vent’anni la testimonianza di Libero Grassi ci ricorda quanta strada è stata fatta nel campo della prevenzione e dell’assistenza alle vittime del racket. Rimane, tuttavia, di cocente attualità ed insoluto il tema della qualità del consenso elettorale, proprio ora che la «linea della palma», come scriveva Sciascia, ha raggiunto i lembi estremi del profondo nord.
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