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domenica 29 giugno 2014

Vi invitiamo al Concerto di CISCO e alla visione di " La mafia uccide solo d'estate"

VI INVITIAMO

Pinerolo 6 luglio 2014, ore 21.00 -"Area Spettacoli Corelli"- via Dante Alighieri n. 9: Concerto di Ciscoautore della colonna sonora originale del film  "I Cento Passi",  con i  Modena City Ramblers . "I cento Passi", lo ricordiamo, è stato il film di che ha avuto il merito di aver fatto "scoprire" a molti di noi la storia di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia nella notte fra l'8 e il 9 maggio 1978.  
Nel pomeriggio della domenica 6 luglio, a partire dalle ore 17.30/18.00 e in preparazione-attesa del concerto, il gruppo scout Clan Carrick organizza momenti di riflessione su temi che interessano le nostre attività: le mafie al Nord, le "dipendenze" fra i giovani (...e meno giovani), le ludopatie.... Uno dei temi , "Le mafie al Nord", verrà trattato dal presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo. Durante la presentazione del concerto, daremo notizia al pubblico delle nostre reciproche  attività sul territorio.


Pinerolo  7 luglio 2014, ore 21.00 "Area Spettacoli Corelli" via Dante Alighieri n. 9 :  proiezione del film "La mafia uccide solo d'estate" nell'ambito del programma 2014 di "Cinema in Piazza".
Il Fatto Quotidiano"Perché si può parlare di mafia, anche con un sorriso. E’ con il sorriso infatti che Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, racconta le stragi mafiose che sconvolsero la Sicilia tra gli anni ’70 e ’90 attraverso gli occhi di un bambino, Arturo, che nasce e cresce a Palermo. Partendo dalla strage di Viale Lazio del 1969, Pif unisce elementi di finzione a immagini di repertorio e racconta l’omicidio del generale Dalla Chiesa, di Boris Giuliano, di Pio La Torre e Rocco Chinnici fino ad arrivare alle bombe di Capaci e di via D’Amelio del 1992. (...)". 



giovedì 26 giugno 2014

26 giugno 1983. Bruno Caccia viene assassinato a Torino

“Vogliamo conoscere la verità”. 

Era quanto chiedevano i figli di Bruno caccia lo scorso anno, trentennale dell'uccisione del procuratore capo di Torino



«I cittadini hanno diritto di conoscere la verità su ciò che è successo». Questo l’appello di Guido, Paola e Cristina Caccia, figli di Bruno Caccia, ucciso il 26 giugno 1983 dalla `ndrangheta, contenuto nella lettera aperta indirizzata alla Città di Torino nel trentennale della morte del giudice.  La commemorazione dello scorso anno iniziativa, dicevano i figli di Bruno Caccia, «onora la memoria di nostro padre e ci fa profondamente piacere», ma che non può ridursi soltanto a retorica: serve, sostengono, una «analisi storica». 
«Ciò che durante questi trent’anni sta diventando sempre più chiaro, è che l’assassinio di Bruno Caccia non è stato solo un gesto isolato, progettato in autonomia da un boss locale, l’unico condannato, e compiuto dalla mano di due sicari ancora oggi sconosciuti, ma è stato qualcosa di più complesso, un delitto commesso non tanto e non solo perché Bruno Caccia era un magistrato integerrimo, quanto per tutelare concretamente gli enormi interessi che dal suo operato potevano essere messi a rischio. (...) Torino è città-laboratorio, sarebbe bello che, ricordando il sacrificio di nostro padre, diventasse da quest’anno anche un laboratorio di verità».  

Bruno Caccia
Bruno Caccia aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1941 nel Palazzo di giustizia torinese. Nel capoluogo piemontese rimase sino al 1964 ricoprendo la carica di Sostituto Procuratore, per poi passare ad Aosta come Procuratore della Repubblica. Nel 1967 Caccia ritornò nelle aule torinesi con l’incarico di sostituto Procuratore della Repubblica. Nominato nel 1980 Procuratore della Repubblica di Torino, si occupò di indagare sulle violenze ed i pestaggi che all'epoca puntualmente si verificavano in occasione di ogni sciopero. Come ricorda l'allora suo collega Marcello Maddalena: "Fu, nel settore, il primo segno di presenza dello Stato dopo anni di non indolore assenza". Le indagini di Bruno Caccia si indirizzarono quindi sui terroristi delle Brigate Rosse e Prima Linea e fu lui a condurre le indagini sui primi grandi scandali italiani che coinvolgevano"(...) i grandi petrolieri e i generali delle Fiamme Gialle corrotti, i politici torinesi della prima tangentopoli di Adriano Zampini, gli uomini della Fiat e le mafie trapiantate al Nord". Così Nicola Gratteri ricorda la figura di Bruno Caccia nel libro "Fratelli di sangue". 
Indagini che, come accerterà la storia processuale, dovettero rivelarsi così incisive da decretare la condanna a morte di Bruno Caccia. Ad oggi, Bruno caccia rimane l'unico giudice ucciso per mano delle mafie fuori dalle terre di Sicilia e Calabria. 
E' solo mafia? 
"Vogliamo conoscere la verità", proclamano i figli del giudice assassinato


l'assassinio di Bruno Caccia
Il 26 giugno 1983, Bruno Caccia si era recato con la famiglia fuori città rientrando a Torino soltanto nella serata. Essendo una domenica, aveva deciso di lasciare a riposo la propria scorta. La decisione facilitò il compito ai sicari della 'ndrangheta. Verso le 23,15 mentre Bruno Caccia portava da solo a passeggio il proprio cane, in via Sommacampagna  venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo. Questi, senza scendere dall'auto, spararono 14 colpi e, per essere certi della morte del magistrato, lo finirono con 3 colpi di grazia.

Le indagini
Dapprima le indagini presero la via delle Brigate Rosse: erano quelli gli "anni di piombo" e diverse indagini di Bruno Caccia avevano riguardato proprio brigatisti. Il giorno seguente, le Brigate Rosse rivendicarono l'omicidio, ma presto si scoprì che la rivendicazione risultava essere falsa. Inoltre nessuno dei brigatisti in carcere rivelò che fosse mai stato pianificato l'omicidio del magistrato cuneese. Le indagini puntarono allora l'attenzione sui neofascisti del NAR, ma anche questa pista si rivelò ben presto infondata. L'imbeccata giusta arrivò da un mafioso in galera, Francesco Miano, boss della cosca catanese che si era insediata a Torino. Grazie all'intermediazione dei servizi segreti, Miano decise di collaborare per risolvere il caso e raccolse le confidenze del 'ndranghetista Domenico Belfiore, uno dei capi della 'ndrangheta a Torino, anch'egli in galera. Belfiore ammise che era stata la 'ndrangheta ad uccidere Bruno Caccia e il motivo principale fu che "con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare", come disse lo stesso Belfiore. Una frase inquietante al punto che i magistrati nella sentenza di condanna di colui che era diventato un referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, scriveranno «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati».

A Bruno Caccia sono stati intitolati il Palazzo di Giustizia di Torino, il 26 giugno 2001, e il cascinale "Cascina Bruno e Carla Caccia" a San Sebastiano da Po, sulle colline torinesi. Il cascinale fu sequestrato proprio alla famiglia Belfiore, più precisamente a Salvatore Belfiore, fratello di Domenico, grazie alla legge 109/96.

Cascina Caccia è gestita da Libera 

La Commissione Parlamentare Antimafia oggi è in Piemonte. E non a caso!

Le mafie al Nord. Nando dalla Chiesa: "Di fronte a questo fenomeno, molti continuano a vivere nel paese delle nuvole. Devono capirlo tutti, compresi i politici e alcuni magistrati».
La Commissione Parlamentare Antimafia oggi è in Piemonte, a Torino. Ci auguriamo che le parole di Nando Dalla Chiesa e questa visita servano a dare coraggio e stimolo a quella società responsabile, sempre  invocata da don Luigi Ciotti, che tante volte si rivela timida e paurosa,  incapace di agire come "sentinella".  
E' una nostra colpa, una nostra responsabilità.
Torino. Piazza Castello e la sede della Prefettura
Del resto, è servito a poco anche l'appello lanciato dallo stesso Gian Carlo Caselli, allora Procuratore capo di Torino, nella conferenza stampa che seguì l'operazione "Minotauro" del giugno 2011. In quella occasione, Caselli auspicava che proprio la società civile e la politica piemontese fossero capaci di agire - prevenire e isolare- prima ancora dell'intervento della Magistratura. Così si esprimeva poi Gian Carlo Caselli a riguardo delle relazioni esterne ( anche non penalmente rilevanti) tra esponenti della ’ndrangheta e alcuni politici piemontesi , relazioni emerse dalle indagini e dal processo che ne è seguito: "(...) E quando qualcuno, in assoluta buona fede, pretende che quando queste vengono fuori e non sono penalmente rilevanti, siano necessari gli omissis, siamo di fronte a una fatto controproducente. Le relazioni esterne sono la spina dorsale della ’ndrangheta. Senza di esse sarebbe gangsterismo e da tempo sarebbe stato sconfitto». 

Accadrà ancora quanto avvenuto nelle ultime tornate elettorali nelle quali "carrieristi" (anche della cosiddetta "antimafia")  e "opportunisti" sono stati ancora proposti e ri-proposti, eletti e ri-eletti?
L'incontro di oggi servirà anche a dare rilievo a quanto emerge da uno studio condotto dallo staff di Nando Dalla Chiesa sulle mafie al Nord. 
Nando Dalla Chiesa
La Lombardia è la pecora nera: «Le ultime indagini giudiziarie hanno mostrato un sistema politico e istituzionale sempre più permeabile alle infiltrazioni delle organizzazioni mafiose e un’imprenditoria spesso omertosa, talvolta collusa». 
Il Piemonte «è una tra le regioni del Nord più penetrate, benché in forme e a livelli assai diseguali, dal fenomeno mafioso».  
Occorreva forse ricordare l'insegnamento di Paolo Borsellino, parole spesso dimenticate, accantonate, come quelle di Carlo Alberto Della Chiesa quando "svelava" che la mafia andava cercata e combattuta "fuori dal pascolo palermitano". 

 Fonte: La Stampa
La rete della ’ndrangheta

Da Locri e Platì verso Torino

Il report 2014 per la Commissione antimafia, da oggi in città

ANSA
Il piazzale davanti alla Prefettura, dove arriveranno oggi i componenti della Commissione parlamentare antimafia

La scelta di Torino come sede-vetrina parla da sola. Il primo dei quattro report 2014 sull’infiltrazione della criminalità organizzata nelle «sette regioni sorelle» del Nord sarà presentato proprio qui, oggi (e domani), con la Commissione parlamentare antimafia al gran completo. L’ha curata e redatta un pool di studiosi dell’università di Milano guidato dal professor Nando Dalla Chiesa che, appunto, mette subito le cose in chiaro. ’Ndrangheta? Cosa nostra? Camorra?: «La vera partita si gioca al Nord dove non c’è solo un’appendice, ma il cuore dello scontro, i soldi, e invece le si percepisce ancora come folklore».  

La mafia in Piemonte  
Quaranta facciate di questo lungo lavoro che per la prima volta nella sua storia non è semestrale, ma trimestrale, sono dedicate al Piemonte. «Si assiste a una netta prevalenza della ’ndrangheta rispetto ad altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Alba Chiara. Grazie ad esse - si legge nel testo - è stato disvelato un radicamento molto forte soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia ma anche nel basso Piemonte». Quindici le «locali» (strutture di base della malavita calabrese) menzionate nel rapporto agli atti del Parlamento. Attualmente sono 135 i beni confiscati in provincia di Torino, 51 nel resto della regione. «Il Piemonte, per numero di beni, è secondo solo alla Lombardia».  
Il team di Dalla Chiesa mette poi nero su bianco quello che tutti sanno ma che pochi dicono e cioè che «molti fattori portano a ritenere che la presenza della ’ndrangheta si registri comunque al di fuori dei teatri delle operazioni indicate». Traduzione: il fenomeno è men che mai sconfitto.  

Le «famiglie»  
«La trama dei nuovi poteri si sviluppa intorno alla forte presenza delle famiglie Pesce-Bellocco (Rosarno), Mazzaferro, Morabito, Bruzzaniti, Palamara (Africo), Barbaro di Platì, solo in parte evidenziati a seguito di Minotauro».La maggioranza degli arrestati proviene da Locri e Platì. Quale sia il poi il senso di questo studio, lo spiega il senatore Stefano Esposito, membro piemontese della commissione antimafia insieme al collega Davide Mattiello: «Questo documento servirà soprattutto a sindaci, assessori, consiglieri per conoscere nomi e cognomi Da oggi in poi non ci saranno più alibi per nessuno». Dalla Chiesa chiude: «Al Nord, i mafiosi se sono sconfitti arretrano e invece - spiega - vengono ancora percepiti come folklore, sottovalutati. Di fronte a questo fenomeno, molti continuano a vivere nel paese delle nuvole. Devono capirlo tutti compresi i politici e alcuni magistrati». 









La lezione di Paolo Borsellino ai ragazzi dell'stituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa,

La lezione che il giudice Paolo Borsellino tenne davanti ai ragazzi dell'stituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa, il 26 gennaio 1989. Una lezione da non dimenticare ma spesso ignorata dalla nostra classe politica 


“(...) L'equivoco su cui spesso si gioca  è questo: si dice 'quel politico era vicino ad un mafioso', 'quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto'. 
E no! questo ragionamento non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: 'beh... Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire quest'uomo è mafioso'. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: 'questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto'. Ma, dimmi un po, tu non ne conosci gente che é disonesta ma non é mai stata condannata perché non ci sono le prove per condannarlo, però c'è il grosso sospetto che dovrebbe quantomeno indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati.”

mercoledì 25 giugno 2014

25 giugno 1992. L’ultima uscita pubblica di Paolo Borsellino.

Il dovere della memoria. Giovedì 25 giugno 1992. Nella serata Paolo Borsellino partecipa ad un pubblico dibattito organizzato dalla rivista MicroMega. E’ l’ultima uscita pubblica di Paolo Borsellino.
Nella mattinata di quel giorno, gli ufficiali Sinico e Baudo dei carabinieri di Palermo apprendono dal maresciallo Lombardo che “negli ambienti carcerari si dà il Dott. Borsellino per morto”. Non appena rientrato a Palermo il Cap. Sinico riferisce la notizia a Borsellino il quale afferma di essere a conoscenza del progetto di attentato ai suoi danni, ma fa capire che preferisce accentrare su di sé i pericoli per risparmiarli alla propria famiglia.

Quella sera, del 25 giugno Paolo Borsellino,  Procuratore aggiunto di Palermo, si definisce apertamente un testimone, e rivela di essere a conoscenza di “alcune cose” che riferirà direttamente “a chi di competenza”, allautorità giudiziaria. Sono elementi utili a chiarire lintreccio criminale che in quei giorni minaccia la tenuta delle Istituzioni democratiche in Italia? Non lo sapremo mai. Rita Borsellino sottolinea come mai, nella sua lunga carriera di magistrato, il fratello Paolo avesse lanciato “un avvertimento così esplicito”. A chi? E perché? 
La moglie Agnese, che da casa segue lintervento della biblioteca comunale su unemittente locale, impallidisce e salta sulla sedia: “Ma che dice Paolo?” mormora con un filo di voce: “Se fa così, lo ammazzano...”

Mentre Borsellino parla, il silenzio del pubblico è assoluto. Quelle che il pubblico ascolta sono parole colme di sdegno , parole ben scandite e pronunciate con una lentezza inconsueta, parole di un UOMO delle Istituzioni consapevole di essere la prossima vittima designata, un uomo che a poco meno di un mese dal suo assassinio non si nasconde dietro la paura ma continua a lavorare incessantemente per scoprire la verità sulla Strage di Capaci. Quando il magistrato ricostruisce la vicenda della mancata nomina da parte del CSM a Consigliere Istruttore di Palermo nel 1988 e parla apertamente di un qualche Giuda che si impegnò subito a prendere in giro Falcone un lungo applauso lo interrompe. 



Il discorso di Paolo Borsellino pronunciato la sera del 25 giugno 1992 

“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, 
come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
 Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l'argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul "Sole 24 Ore" dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo  
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto
Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul "Corriere della Sera" che bollava me come un professionista dell'antimafia, l'amico Orlando come professionista della politica, dell'antimafia nella politica.
di morte.
Ma nel gennaio del 1988,  il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest'uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro
E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall'esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l'aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L'opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell'agosto 1988, l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l'intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po' più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
 Certo anch'io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch'esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e l'organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

martedì 24 giugno 2014

Tullio Cirri, presidente del Consiglio Comunale di Pinerolo.


E' morto questa notte, all'età di 78 anni, Tullio Cirri, presidente del Consiglio Comunale di Pinerolo.
Abbiamo avuto modo di conoscerlo nel corso di questi due anni di attività del presidio "Rita Atria", scambiando a volte con Lui riflessioni su temi e aspetti della politica cittadina, apprezzandone la passione per l'impegno politico.
Il presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo porge sentite condoglianze alla sua famiglia.
Fonte "Eco del Chisone": "(...) da oltre trent'anni figura di spicco della politica cittadina. Da alcuni mesi era stato colpito da una malattia incurabile. Cirri, ex dirigente d'azienda, politicamente ha sempre militato nell'area di centrodestra, iniziò da giovane nella Democrazia Cristiana, poi passò nelle file del Partito Liberale diventandone una delle colonne fino al suo scioglimento. Oggi sedeva sullo scranno più alto del Consiglio come indipendente."

Aspettando Renzo Piano...nuove "case popolari" a Pinerolo?


"Aspettando Renzo Piano"...Sentinelle del Territorio! (le parole riprendono quanto abbiamo scritto l'estate scorsa a proposito delle vicende urbanistiche di Pinerolo) leggiamo della discussione che si terrà nel prossimo Consiglio Comunale per l'individuazione di nuove aree destinate a edilizia popolare a Pinerolo.
Solo pochi giorni sono passati dalla prova d'esame di maturità che vedeva la sua traccia riprendere proprio un articolo scritto già alcuni mesi orsono da Renzo Piano, illustre architetto italiano.  In quell’articolo, Renzo Piano scriveva: “Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro (…) La prima cosa da fare è non costruire nuove periferieBisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d'olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubblicheSi deve mettere un limite alla crescita anche perché diventa economicamente insostenibile(…)”

Ci domandiamo: cosa traggono le classe politiche -anche quelle locali- dalla riflessione di Renzo Piano? Hanno letta quella riflessione?
Ma veniamo all'ipotesi di un nuovo piano di intervento di edilizia popolare a Pinerolo. 
Non dimentichiamolo: le periferie degradate di cui parla Renzo Piano, quelle bisognose di “rammendo e di cura”, sono anzitutto “periferie umane”! Luoghi degradati perché non curati! Luoghi nei quali è stata riposta l’umanità degli "ultimi", una umanità oggi ancor più dolente a causa di una una crisi economica che è una crisi strutturale , di sistema, e che  proprio per questo abbisogna di interventi innovativi e concretamente rispondenti ai bisogni delle persone.
Come rispondere a quei bisogni? 
Si dovrebbe rispondere a quei bisogni anzitutto creando sistemi socio-economici onesti, etici e sostenibili, che consentano condizioni di vita dignitosa per le persone. Non dovrebbe invece essere più consentito sfruttare “le emergenze” ( artificiosamente create)  affinchè il sistema ( sempre il solito) abbia modo di speculare sull’emergenza stessa.
Simbolo di quella periferia “bisognosa” tante volte sono state proprio le cosiddette “case popolari”. Una edilizia di bassissima qualità architettonica e urbanisitica, destinata ai ceti sociali più poveri (quelli che ora i sociologi ci invitano a chiamare " le vecchie povertà") destinata a un degrado inesorabile perchè mai sono state operate le manutenzioni necessarie a quegli edifici, quasi che il degrado materiale-edilizio dovesse mostrare, anticipare o seguire, un marchio sociale, umano. Errori da non ripetere! L'errore da non ripetere è soprattutto quello di creare "ghetti edilizi" che divengono anzitutto, come abbiamo detto,ghetti "di umanità"separati, staccati anche "fisicamente" dal resto della comunità. 
Il sistema "torinese": quando "agiatezza" e "povertà" s'incontravano sulle medesime scale
Dovremmo imparare dalla storia passata perchè non è sempre stato così . Perché non ci ricordiamo del sistema urbanistico e architettonico torinese? Torino: la città dei santi laici! Una riflessione: forse che la “santità laica” di Torino non derivasse anche dalla particolare configurazione urbanistica e architettonica dei suoi quartieri? 
Prima che la speculazione edilizia realizzasse “i quartieri popolari”, a Torino, come in verità anche in altre città, esisteva una stratificazione sociale “verticale”: nello stesso palazzo abitavano e vivevano classi sociali differenti, dal “piano nobile” al “mezzanino”. Esisteva un rapporto continuo, quotidiano, fra classi sociali diverse che derivava proprio del vivere negli stessi ambiti, addirittura nello stesso edificio. Contatti variegati e continui fra agiatezza e povertà , classi sociali che si guardavano con reciproco e necessario rispetto, dove l’una aveva modo e necessità di  confrontarsi e stemperarsi nello sguardo dell’altra, perchè agiatezza e povertà percorrevano le medesime scale! (... anche se l’altezza dei gradini delle medesime aumentava col salire le stesse, giacché l’altezza del piano dell’abitazione era inversamente proporzionale con la classe sociale a cui la famiglia apparteneva).
Le emergergenze! (...create ad arte)
Ma non vogliamo ora percorrere sentieri filosofici o pseudo-spirituali. Parliamo  del cosiddetto “bisogno abitativo”l’ennesimo “slogan”, l’ennesima “emergenza” costruita da un sistema che ha visto privilegiare l’edilizia come speculazione economica-finanziaria piuttosto che progetto razionale in risposta ai bisogni delle comunità. Il risultato è sotto i nostri occhi: tessuti urbani oltraggiati, spesso guastato dalle "cose-case" costruite negli ultimi decenni; un paesaggio deturpato da una infinita e squallida periferia - il cosiddetto urban-sprawl- che ha offeso e devastato i nostri paesaggi. L'infinita periferia della "statale dei Loghi" ( così chiamo la nostra "Statale dei Laghi") ne è la triste rappresentazione!
Proprio all'indomani del tema di maturità un articolo del prof. Piero Bevilacqua, spiega - sommariamente- il carattere e le motivazioni delle tante "emergenze" di questa Italia: il giochetto è sempre  lo stesso ( non sorridete!)  ed è quello di "creare" una emergenza per proporsi poi come colui (o coloro) che salvano dall'emergenza...Vi ricorda qualcosa? Ed ecco servita l'emergenza dell'Expo, del Mose, della Tav, dell'"edilizia popolare" che manca quando -per decenni- si è speculato sul paesaggio devastandolo con case-cose-capanoni industriali-aree industriali-rotonde-centri commerciali...
Soluzioni alternative?
E allora ci chiediamo questo: non potrebbe essere quella particolare connotazione dell’architettura residenziale “torinese” dei secoli passati - la convivenza di classi sociale variegate residenti in uno stesso edificio o complesso residenziale- un tratto e un principio da perseguire in iniziative che si propongono di rispondere alla carente offerta di abitazioni “ a buon mercato” con interventi che rispondano a criteri di alta qualità sociale e architeonica-urbanistica?
Anche perché, proprio a Pinerolo,  alla necessità di dare risposte alla carenza di edilizia  di tipo “economico” si contrappone la situazione paradossale che vede una quota significativa del patrimonio edilizio esistente “sfitto” o “in vendita”,  a prezzi che -colpa la crisi economica- spesso sono oramai concorrenziali rispetto a nuove costruzioni. Nuove costruzioni che comportano, anzitutto e comunque, ulteriore consumo di suolo sia pure "antropizzato" ( che spesso significa: già rovinato!)
Perchè non pensare invece di acquisire edilizia già edificata? Edilizia "in vendita" (ma che spesso rimane invenduta) sgravando così i proprietati dagli oneri sempre maggiori che gravano sul patrimonio immobiliare. Si potrebbe pensare a delle forme di comproprietà sociale, comunità abitative sovvenzionate sfruttando proprio gli edifici esistenti. Il cosiddetto "social housing" altrove è stato proprio usato così: acquisire a prezzi conveniente edilizia già sul mercato per offrire soluzioni abitative, con costi sostenbili, rivolte a chi è in difficoltà.
Numerose amministrazioni italiane , anche in alcuni comuni del pinerolese e della prima cintura di Torino, cominciano a porsi obbiettivi di sostenibilità degli interventi sul tessuto urbano, di "etica" che si rispecchia e si concretizza anche nell'uso, nella cura e nel rispetto del territorio, visto non più come "merce da depredare" ma come risorsa da accudire e proteggere per fondare nuovi sistemi-modi di vita sociale sostenibile. Dalle pianure alle montagne!
Occorre far ripartire l'Edilizia...  
Sul fatto poi che queste nuove edificazioni possano far superare la crisi del settore edilizio fornendo "occasioni di lavoro” è palese l’infondatezza della tesi: basterebbe considerare del quote di patrimonio edilizio “sfitto o invenduto” per capire che una prospettiva di ripresa di medio lungo periodo del settore non ha altra strada se non quella indicata proprio -e primo fra tutti- da Renzo Piano nel suo articolo: manutenzione, riqualificazione, rammendo e completamento del tessuto urbanomanutenzione e rammendo della Bellezza oltraggiata!
Aspettando Renzo Pianocosa scriverebbero,come risponderebbero, nella loro "prova di maturità" i nostri amministratori  e in merito a quella sua riflessione?
presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo

mercoledì 18 giugno 2014

IN BOCCA AL LUPO

Esami e maturità!
Ci siamo conosciuti quest'anno!
A voi che vivete le prove di questi giorni, alle vostre amiche, ai vostri amici:
"In bocca al lupo!"...e difendete sempre la Bellezza della vostra Vita


mercoledì 11 giugno 2014

L'Ultimo dell'anno. Incontro alla Scuola CFIQ di Pinerolo

L'Ultimo dell'anno.
Lo scorso 30 maggio abbiamo avuto l'ultimo incontro con  gli studenti della scuola professionale CFIQ di Pinerolo...Anche quell'incontro si è svolto facendo memoria dell'intuizione di Paolo Borsellino: "(...) le nuove generazione, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità". Le figure dei nostri eroi, Falcone e Borsellino, e di Peppino Impastato, Rita Atria, insieme ai tanti di cui "facciamo memoria".
Anche quel giorno abbiamo provato a riflettere insieme ai ragazzi. E abbiamo compreso come parlare "di mafie" significhi anzitutto parlare e riflettere di noi stessi: dalla necessità di prestare attenzione "alle regole", alla difesa della propria dignità ( sempre!). Perché solo rispettando le regole, ma ancora di più operando ed impegnandosi affinchè le regole applicate siano "giuste", si può pensare di costruire una società migliore. Una società nella quale le ragazze ed i ragazzi possano vivere consapevolmente la loro vita; una società nella quale possano realizzare i propri sogni; una società nella quale siano riconosciuti i meriti e le capacità di ognuno ma nella quale si assicuri attenzione e dignità anche a chi si trovi a vivere situazione di difficoltà. Tutto questo "le mafie", le cricche, le caste, negano!
Dalle regole alla "regola delle regole" : la Costituzione Italiana
Leggendo insieme a loro quei principi comprendiamo il tanto lavoro ancora da compiere: occorre ancora lavorare, impegnarsi, tutti insieme,  affinchè diventino realtà i sogni di donne e uomini che hanno lottato affinchè nascesse una società, una nazione, più giusta e quindi più libera!
Abbiamo fatto conoscere alle ragazze e ai ragazzi il tema di maturità di una loro coetanea: Rita Atria. La fine del tema: 
"(...) 'unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tuttiL'unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c'è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo".
 Rita Atria Erice, 5 giugno 1992
Infine, ancora le parole di Rita Atria a disvelare la verità più semplice e più gravosa:
"(...) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi (...)". 
E le mafie, come ci insegna Peppino Impastato, sono la bellezza negata alle nostre vite!


Pertanto, ringraziamo dell'invito le studentesse e gli studenti della Scuola CFQI, i loro docenti, per aver contribuito a rendere reale quanto avevamo scritto in occasione della Giornata della memoria dello scorso 22 marzo: (...)  studenti, insegnanti, dirigenti scolastici pronti a riscrivere nella quotidianità la nostra scelta per la lotta alle mafie e per l'affermazione della giustizia sociale”. 

martedì 10 giugno 2014

A Casal di Principe la camorra ha perso!

Forse il segnale più bello giunto da questa tornata elettorale arriva proprio dalla "terra dei fuochi". Mentre altrove sono spesso ritornati alla carica -e sono stati eletti- "opportunisti e carrieristi", così scrive Roberto Saviano a proposito di quanto è avvenuto nella "terra dei fuochi": "La camorra, questa volta, ha perso. Renato Natale sindaco di Casal di Principe. Chi diceva che raccontare è diffamare? Chi diceva che parlare sempre di camorra distrugge e non costruisce? Ecco dimostrato esattamente il contrario." http://goo.gl/FImrGP



La favola bella è che questo succede ora, in terra di mafie, quando si ha il coraggio di "raccontare" la verità. 
Dopo lo scioglimento per infiltrazioni camorristiche e due anni di commissariamento, a Casal di Principe,  si è tornati a votare. Ha vinto Franco Natale, sostenuto dalle liste civiche Ricostruiamo e Casale Rinasce, che con il 68% è risultato nettamente avanti a Enricomaria Natale fermo al 32%. Lo aveva scritto Roberto Saviano in Gomorra: Renato Franco Natale, nel 1993 era stato il primo Sindaco di Casal di Principe ad aver indicato nella lotta alla camorra, nella gestione trasparente e onesta del bene pubblico, il cardine della sua azione politica e aministrativa. La sua amministrazione durò solo pochi mesi , interrotta dall'assassinio di Don Beppe Diana, il simbolo della lotta alla camorra,  ucciso il 19 marzo 1994 dai sicari dei casalesi
Riportiamo il brano di Gomorra nel quale si racconta l'assassinio di Don Beppe Diana e, di seguito la sua lettera Per amore del mio Popolo non tacerò

Don Bepppe Diana
Tratto da GOMORRA di R. Saviano:  "(...) Don Peppino iniziò a mettere in dubbio la fede cristiana dei boss. In terra di camorra il messaggio cristiano non viene visto in contraddizione con l'attività camorristica: il boss spesso dice di essere un “buon cristiano”, dà soldi per le feste. Per i camorristi uccidere non è un peccato grave:  ammazzare qualcuno viene considerato come un peccato che verrà compreso e perdonato da Cristo in nome della necessità (...) I suoi killer non scelsero una data a caso. Scelsero il  giorno del suo onomastico, il 19 marzo del 1994. Mattina prestissimo. Don Peppino non si era ancora vestito con i paramenti per la Messa. Stava in una sala riunioni della chiesa. Non era immediatamente riconoscibile.
 "Chi è don Peppino?"
 "Sono io..."
L'ultima risposta. Cinque colpi che rimbombarono nelle navate della chiesa, due pallottole lo colpirono al volto, le altre bucarono la testa, il collo e una mano. Avevano mirato alla faccia, come si fa per i peggiori nemici.  Don Peppino si stava preparando per celebrare la prima messa. Aveva trentasei anni."

Per amore del mio Popolo non tacerò
« Siamo preoccupati
Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori della Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere “segno di contraddizione”. Coscienti che come chiesa “dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà, come distacco dalla ricerca del superfluo, da ogni ambiguo compromesso o ingiusto privilegio, come servizio sino al dono di sé, come esperienza generosamente vissuta di solidarietà”.
La Camorra
La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l'imprenditore più temerario; traffici illeciti per l'acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.
Precise responsabilità politiche
È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l'infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d'intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L'inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l'inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l'Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.
Impegno dei cristiani
Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad essere profeti.
Il Profeta fa da sentinella: vede l'ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3,16-18);
Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);
Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive, la Solidarietà nella sofferenza (Genesi 8,18-23);
Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22,3 -Isaia 5)
Coscienti che “il nostro aiuto è nel nome del Signore” come credenti in Gesù Cristo il quale “al finir della notte si ritirava sul monte a pregare” riaffermiamo il valore anticipatorio della Preghiera che è la fonte della nostra Speranza.
NON UNA CONCLUSIONE: MA UN INIZIO
Appello
Le nostre “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell'annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26). Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”. »