Il dovere della memoria. Giovedì 25 giugno 1992. Nella serata Paolo Borsellino partecipa ad un pubblico dibattito organizzato dalla rivista MicroMega. E’ l’ultima uscita pubblica di Paolo Borsellino.
Nella mattinata di quel giorno, gli ufficiali Sinico e Baudo dei
carabinieri di Palermo apprendono dal maresciallo
Lombardo che “negli ambienti carcerari si dà il Dott. Borsellino per morto”.
Non appena rientrato a Palermo il Cap. Sinico riferisce la notizia a Borsellino
il quale afferma di essere a conoscenza del progetto di attentato ai suoi
danni, ma fa capire che preferisce accentrare su di sé i pericoli per
risparmiarli alla propria famiglia.
Quella sera, del 25 giugno Paolo Borsellino,
Procuratore aggiunto di Palermo, si definisce apertamente un testimone,
e rivela di essere a conoscenza di “alcune cose” che riferirà direttamente “a
chi di competenza”, all‟autorità
giudiziaria. Sono elementi utili a chiarire l‟intreccio
criminale che in quei giorni minaccia la tenuta delle Istituzioni democratiche
in Italia? Non lo sapremo mai. Rita Borsellino sottolinea come mai, nella
sua lunga carriera di magistrato, il fratello Paolo avesse lanciato “un
avvertimento così esplicito”. A chi? E perché?
La moglie Agnese, che da casa
segue l‟intervento della
biblioteca comunale su un‟emittente
locale, impallidisce e salta sulla sedia: “Ma che dice Paolo?” mormora con un filo
di voce: “Se fa così, lo ammazzano...”
Mentre Borsellino parla, il
silenzio del pubblico è assoluto. Quelle che il pubblico ascolta sono parole colme di sdegno , parole ben scandite e pronunciate con una lentezza inconsueta, parole
di un UOMO delle Istituzioni consapevole di essere la prossima vittima designata, un uomo che a poco meno di un mese dal suo assassinio non si
nasconde dietro la paura ma continua a lavorare incessantemente per scoprire la
verità sulla Strage di Capaci. Quando il magistrato ricostruisce la
vicenda della mancata nomina da parte del CSM a Consigliere Istruttore di
Palermo nel 1988 e parla apertamente di un qualche Giuda che si impegnò subito
a prendere in giro Falcone un lungo applauso lo interrompe.
“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo
ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi
costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare
perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a
me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un
magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di
utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e
dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio
lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone.
Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro
accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro,
perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi
giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo
raccolto comunque più o meno di altri,
come amico di Giovanni Falcone, tante
sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle
convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi
che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli
all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose
che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine
alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa
tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte
della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo
astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal
riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io
riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui
giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima
cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in
pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l'argomento, e per
evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti,
che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul "Sole 24
Ore" dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si
chiama... - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio
appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero
essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato
alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi -
un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a
morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto.
Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a
fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a
ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio
dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del
1992, sia il naturale epilogo di questo processo
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto |
Però quello che ha
detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo
conto di quale è stata la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende
della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato,
la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo
morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha
or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul "Corriere della Sera"
che bollava me come un professionista dell'antimafia, l'amico Orlando come
professionista della politica, dell'antimafia nella politica.
di morte.
Ma nel gennaio
del 1988, il Consiglio
superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il
consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo
e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli
ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest'uomo,
Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita
sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di
morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da
anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa,
pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo
convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la
corsa alla successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone
concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del
mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo:
preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando
l'altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di
continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva
tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che,
nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli
avrebbe potuto continuare il suo lavoro.
E continuò a crederlo nonostante io,
che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero
stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall'esterno questa
situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni
Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che
Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza
che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della
presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava
accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca
Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l'aria ci stava pesando
addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa
avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze
professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore
immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando
del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto
Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero
convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere
eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool
antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L'opinione pubblica fece il
miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell'agosto 1988, l 'opinione pubblica
si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi
in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15 settembre,
se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del
consigliere istruttore, l'intervento nefasto della Cassazione cominciato allora
e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia,
la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non
esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo
che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso
dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò
alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le
motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che
deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un
certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni
Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì
prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in
un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché
si era innamorato di Claudio
Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle
istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle
sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa.
Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci
vedevamo un po' più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a
Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza
del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama,
l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i
singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da
allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva
fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
Certo anch'io talvolta ho
assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni
della vita e dell'attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una
struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch'esse
gerarchiche ma in altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava
di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni
Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal
primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per
Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua
permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato,
anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di
strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare
specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al
lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con
leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente
senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di
maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque
sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho
espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera
sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello
Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui
creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue
idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di
ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e
l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è
trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e
l'organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23
maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si
erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la
violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura,
era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo
comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori
del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal
diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci,
quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988
aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli
fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate
tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo
intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di
uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura,
si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al
potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in
questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per
potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato
impedito, perché è questo che faceva paura.
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