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mercoledì 26 settembre 2012

L'alba di Torino in nome di Mauro Rostagno

Oggi Torino finalmente si sveglia con un Ponte dedicato a Mauro Rostagno.

Sono passati più di tre anni da quando oltre mille cittadini posero la propria firma per chiedere alla Città di Torino di dedicare a Mauro uno spazio pubblico, il ponte in zona Spina 3. Da allora quei cittadini non hanno ricevuto una risposta ufficiale.




Due 'commissioni toponomastica' hanno avuto all'ordine del giorno l'intitolazione, la prima presieduta da Castronovo e l'attuale presieduta da Ferraris, senza che una decisione fosse presa.
In occasione del 24esimo anniversario della morte di Mauro Rostagno (ucciso a Trapani il 26 settembre 1988, per mano mafiosa, a causa delle denunce che portava avanti dall'emittente televisiva RTC) un gruppo di cittadini ha deciso di intitolare autonomamente il Ponte, sperando in tal modo di ottenere una risposta chiara e solerte da parte della Città di Torino.
Chiedono che il sindaco Piero Fassino e il Presidente del C.C. Giovanni Maria Ferraris diano un segnale a chi ha firmato nel 2008 e alla famiglia di Rostagno che qui vive.
É a Torino che Mauro é nato; é a Torino che uno spazio pubblico degno deve rendere omaggio al suo sacrificio.


"Agli uomini capita di mettere radici, e poi il tronco, i rami, le foglie... quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via: allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabile.
Oppure te ne fotti. Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi. Sfidi la mafia, che è una forma di contenimento, di mortificazione. La mafia ti umilia: "calati junco che passa la piena", dicono da queste parti. Ecco, la mafia è negazione d’una parola un po’ borghese: la dignità dell’uomo."
Mauro Rostagno

lunedì 24 settembre 2012

Sabato 22 settembre si è tenuto il primo Coordinamento Regionale di LIBERA dell'anno sociale 2012-2013
Facendo nostro lo slogan "UNITI CONTRO LE MAFIE", il presidio Libera "RITA ATRIA"-Pinerolo riprende ufficialmente questa sera  la sua attività: idee, progetti, azioni efficaci. 

domenica 23 settembre 2012

Giancarlo Siani e la storia che non ha fatto in tempo a scrivere: è stato ucciso il 23 settembre 1985

"(...)Come hanno raccontato Lamberti e vari altri testimoni, Siani aveva imboccato la pista della corruzione e dell’abbraccio velenoso tra camorra e politica. Negli anni successivi altre inchieste e altri processi proveranno la correttezza delle sue intuizioni. Il Comune di Torre Annunziata sarà sciolto per infiltrazioni mafiose e il sindaco condannato. Giancarlo aveva ragione ma non gli è stata concessa la possibilità di scriverlo. Aveva appena compiuto 26 anni."
giancarlo siani

 Fonte : Corriere Della Sera

di Antonio Castaldo

Era Lunedì. Giancarlo aveva finito di lavorare prima del solito. Doveva andare a un concerto. La fidanzata lo aspettava. E mentre dal Chiatamone, nel cuore barocco di Napoli, volava verso casa, su al Vomero, molto probabilmente sorrideva. Aveva ottenuto un contratto di due mesi, una sostituzione estiva alMattino. Da cinque anni era un «abusivo», lo schiavetto della redazione di Castellammare di Stabia. Senza contratto e senza diritti. Ma il purgatorio stava per finire. «Appena parte il nuovo piano editoriale sarai assunto», gli aveva detto il direttore Pasquale Nonno. Il suo sogno, lo stesso di ogni ragazzo che vuole fare il giornalista, stava per realizzarsi. Avrebbe avuto un contratto da praticante. La sera in cui fu ammazzato, Giancarlo Siani tornava a casa prendendo il vento di faccia nella sua Citroen Méhari verde bottiglia. Aveva compiuto 26 anni da quattro giorni. Ed era felice.
Una sentenza passata in giudicato nel 2000 ha stabilito che ad uccidere il giornalista napoletano alle 20.50 del 23 settembre 1985 sono stati due killer del clan Nuvoletta. Da quello stesso giorno il suo nome è diventato un simbolo di legalità. Giancarlo è diventato un eroe, un martire. Nessuno può negarlo e una sentenza lo conferma, i killer lo hanno ammazzato per quello che aveva scritto. E per ciò che stava per scrivere. Eppure, come ci ricorda un libro di Bruno De Stefano appena pubblicato, Passione e morte di un giornalista scomodo (Giulio Perrone editore), Siani era «un cronista che faceva semplicemente il suo lavoro con tanta passione e altrettanto rigore». E «il santino da eroe e da martire cucito addosso a questo giovanotto solare e sorridente più che rendergli onore lo mortifica, svilisce la sua intelligenza e il suo equilibrio trasformandolo in uno sprovveduto aspirante cronista inconsapevole dei rischi a cui andava incontro». Il libro di De Stefano restituisce alla corretta ricostruzione dei fatti un ragazzo morto ammazzato inseguendo la verità. E ce n’era bisogno perché altri avevano affrontato il caso dal punto di vista soltanto emozionale, come in un romanzo. Mancava un’analisi organica e definitiva della lunga vicenda processuale. Un testo che completasse certezze maturate in 15 anni di passi falsi.
Siani era un cronista di provincia. L’ultimo arrivato nel più grande quotidiano del Sud. Fin dal giorno del delitto, per qualcuno è stato difficile accettare l’idea che fosse stato giustiziato a causa del suo lavoro di cronista di frontiera. All’inizio anche la stessa magistratura ha inseguito ipotesi suggestive quanto irreali, collusioni con cooperative di ex detenuti piuttosto che piste passionali. La verità era altrove, ed è venuta fuori solo a partire dalla metà degli anni 90, grazie ad alcuni pentiti e al lavoro di un magistrato determinato come Armando D’Alterio.
Siani era dal 1980 corrispondente dalla città di Torre Annunziata, in quegli anni al centro della sanguinosa faida che opponeva il gruppo di Bardellino (il nucleo primigenio del clan dei casalesi) alle famiglie vesuviane di Alfieri e Gionta. Una guerra di mafia culminata nel massacro del 26 agosto del 1984 a Torre Annunziata. Gli uomini di Bardellino piombarono nel quartier generale dei Gionta a bordo di un pullman.  Morirono 8 persone, 7 i feriti. Ma il boss Valentino scampò all’agguato.
Giancarlo non poté scrivere molto sul fatto più grosso che gli fosse mai capitato. Come sempre in questi casi, i pezzi di prima pagina sono appannaggio degli inviati speciali. Ma nei mesi successivi si diede da fare con gli scenari criminali in continuo mutamento.
L’8 giugno 1985 Gionta viene arrestato nei pressi della tenuta di campagna dei Nuvoletta, dove aveva trovato rifugio durante la latitanza. Ancora una volta Siani resta in panchina. Ma il 10 giugno appare un pezzo di analisi che prova a spiegare quell’arresto inaspettato:La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan di ‘Nuova famiglia’, i Bardellino”, scrive, evidentemente imbeccato dagli investigatori. E questa frase, a quanto hanno accertato dai giudici, decreta la sua condanna a morte.

Tuttavia, l’ombra di infamia fatta aleggiare sui potentissimi Nuvoletta non è il solo movente. Siani stava indagando da alcuni mesi sugli intrecci tra la classe politica vesuviana e la criminalità organizzata. Le sue fonti racconteranno delle continue richieste di documenti su appalti e piani di ricostruzione, riccamente finanziati dai fondi per il terremoto
Un’amica di vecchia data, Chiara Grattoni, testimonierà che Giancarlo era in quel periodo eccitato per le notizie che aveva scoperto: La cosa che ricordo di più, che mi impressionò di più, era che lui sosteneva che i politici di Torre Annunziata fossero implicati in fatti di camorra [...]. Era molto preso dalla cosa”. Confermò la donna. E come alla fine concluse il pm D’Alterio,Siani faceva paura per il solo fatto che in un ambiente omertoso, quale quello di Torre Annunziata, faceva domande e smuoveva le acque”.
Siani, insomma, dava fastidio perché poneva interrogativi scomodi. E perché continuava a raccogliere documenti su documenti. Il giorno della sua morte telefonò ad Amato Lamberti, il sociologo da sempre impegnato nella lotta alla camorra, e gli chiese urgentemente un incontro. Doveva parlargli. Ma al telefono non poteva, e non vicino al giornale, dove evidentemente non si sentiva al sicuro. Nessuno sa cosa avesse scoperto. Quando è stato ucciso, nella scassatissima auto decappottabile, in ufficio e a casa, non è stata trovata traccia del dossier su cui lavorava. Una stranezza per chi come lui era abituato ad archiviare anche gli scontrini. Sta di fatto che, come hanno raccontato Lamberti e vari altri testimoni, Siani aveva imboccato la pista della corruzione e dell’abbraccio velenoso tra camorra e politica. Negli anni successivi altre inchieste e altri processi proveranno la correttezza delle sue intuizioni. Il Comune di Torre Annunziata sarà sciolto per infiltrazioni mafiose e il sindaco condannato. Giancarlo aveva ragione ma non gli è stata concessa la possibilità di scriverlo. Aveva appena compiuto 26 anni.

Le donne sindaco della Locride impegnate quotidianamente a difesa della legalità

La LOCRIDE
Storie di donne "diverse"; storie di donne della Locride che combattono per una politica e per una Italia differente. Le parole di Elisabetta Tripodi, Sindaco di Rosarno, 44 anni: "Non è l'antipolitica il nostro nemico, è la brutta politica. Chissà se lo capiscono lassù a Roma che serve coraggio. Non è difficile, davvero. Venite a vedere qui da noi: ci sono donne ad ogni angolo di strada che si battono, in silenzio e da sole, come leoni"

...meglio ancora: come leonesse!




Fonte La Repubblica

Le donne sindaco della Locride scuotono  anche il Pd sulla legalità

Cinque vite sotto scorta per 800 euro al mese, sono tutte donne: Maria Carmela Lanzetta, Maria Teresa Collica, Elisabetta Tripodi, Carolina Girasole, Anna Maria Cardamone. La rabbia per i milioni accettati in Lazio: "Noi le spese le paghiamo di tasca nostra"
 di CONCITA DE GREGORIO

ROSARNO - Dice Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno: "Questi sono posti dove le teste di maiale non si indossano ai toga party, te le lasciano mozzate sullo zerbino davanti a casa. "E' un rito arcaico della 'ndrangheta ma noi qui ci siamo nate e non ci lasciamo impressionare, lo sappiamo che è così".  L'indennità da sindaco, lo stipendio, è di 800 euro al mese che diventano "411 virgola 80 centesimi perché ne lascio la metà al comune per le spese sociali". Sono paesi e città dove se il boss locale ti spara alla macchina ti danno la scorta, ma  -  spiega Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto - "io non l'ho voluta la scorta, ho detto la scambio per due funzionari bravi per i comune, due giovani assunti per concorso. Risultato: mi hanno tolto la scorta e non mi hanno dato i funzionari". 
Il giornale del mattino arriva anche a Decollatura, confine con Lamezia Terme: quando il sindaco Annamaria Cardamone legge l'intervista al capogruppo Pd alla Regione Lazio Esterino Montino, suo collega di partito, che dice insomma, quei due milioni di contributi per le spese erano disponibili, non li potevamo mica dare indietro, ecco quando legge questo il sindaco mormora la cifra due volte poi dice "io le spese le pago di tasca mia, se faccio l'avvocato e compro un libro me lo pago, perché se faccio il sindaco me lo deve pagare la comunità? E' un lavoro, fare politica, non è mica una rendita".
Le primarie del centrosinistra bisogna guardarle anche da qui, fra la Calabria e la Sicilia: sono un altro spettacolo. Con gli occhi di questi cinque sindaci che hanno tutti 40 anni tranne uno, sono tutti laureati, tutti sotto minaccia di morte. Sono tutte donne, pensate pure che sia un caso. 
Tre di loro - Elisabetta Tripodi, Maria Carmela Lanzetta, Carolina Girasole - hanno avuto ieri il premio intitolato a Joe Petrosino ucciso dalla mafia
Maria Carmela Lanzetta non è andata a ritirarlo:  Avevo da lavorare". E' la veterana. 57 anni, due figli di 29 e 26. Sindaco di Monasterace, nella Locride, tremila e cinquecento abitanti, non è andata a ritirarlo. "Avevo da lavorare". E' la veterana. 57 anni, due figli di 29 e 26.  Nonni contadini, madre farmacista e padre medico condotto. Liceo classico a Locri, laurea in farmacia a Bologna. "Non era una famiglia femminista, solo che le donne studiavano e basta". Non iscritta, vota Pd. Eletta sindaco con una lista civica nel 2006, rieletta nel 2011. Il 15 maggio vince le elezioni, il 26 giugno le bruciano la farmacia. Lettere con minacce di morte all'ordine del giorno, a marzo di quest'anno le hanno sparato alla macchina. Vive sotto scorta. "Questo è un paese bellissimo, sul mare. L'area archeologica magno greca più importante del mediterraneo. Facciamo teatro, presentiamo libri. Qui le donne facevano le gelsominaie, mandano avanti l'economia da secoli. Siamo indipendenti, non siamo malleabili. Per me libertà e possibilità di scegliere sono ragioni di vita. Sono calabrese ma sono italiana. Ho bisogno di sentirmi uguale a chi vive a Genova, a Padova. La Locride soffre perché ci tolgono le scuole, l'acqua costa e non ci sono investimenti per le reti idriche. Ho una grande rabbia dentro, enorme. Siamo poverissimi. Non ho i soldi per cambiare le lampadine dei lampioni per strada. I lavori di manutenzione li faccio con la mia indennità. Non chiedo, non mi piacciono i lamenti. Prima di chiedere do. Le prime vittime della 'ndrangheta siamo noi. La gente è stanca della politica, è disgustata. Le primarie, sì, ho qualcosa da dire al Pd: che sia esempio di persone sane e pulite. Che ascolti, ma ascolta? Vorrei poter votare Berlinguer. E' bello che ci sia Laura Puppato, una donna, ma il partito ci crede? Se non ci crede bisognerà scegliere Bersani".


Carolina Girasole, 49 anni, due figlie. Sindaco di Isola Capo Rizzuto, Crotone. 16 mila abitanti. Biologa, laureata a Roma alla Sapienza, aveva un laboratorio di analisi. Comune sciolto nel 2003 per infiltrazioni mafiose, 3 anni di commissario straordinario, poi centrodestra. Vince le elezioni del 2008. "La candidata del Pd non ero io, era la presidente del consiglio comunale ma non hanno trovato l'accordo. Il giorno prima, alle nazionali, ha vinto Berlusconi. Il giorno dopo noi. Lo slogan era "E' qui che vogliamo vivere": abbiamo detto non scapperemo. Vogliamo legalità e trasparenza. In comune quasi nessuno era entrato per concorso, tutti cooptati, inadeguati per numero e capacità. Ho riattivato i concorsi. Il controllo sugli atti. Ci siamo costituiti parte civile per riavere il patrimonio andato ai privati. Abbiamo lottato contro il business dell'eolico, ora il parco è sotto sequestro, uno dei soci era il boss Nicola Arena, è in galera. Stiamo lavorando con Don Ciotti sui terreni confiscati. Hanno bruciato tre macchine, anche quella di mio padre. Mi scrivono minacce di morte sui muri. Ho venduto il laboratorio, perso gli amici, mio marito non ha più clienti. Al posto della scorta ho chiesto due funzionari, non me li hanno dati. Ai colleghi del consiglio regionale del Lazio chiedo che vengano qui sei mesi. Che un po' di quei due milioni di euro che loro usano per le spese a piè di lista vadano ai ragazzi di Isola, figli di genitori uccisi, o in carcere. Vorrei creare una casa della Musica, il futuro passa dai nostri bambini".


Anna Maria Cardamone, 48 anni, sindaco di Decollatura. Laureata a Messina in Economia e commercio, specializzata in Inghilterra. Iscritta al Pd dalla fondazione, eletta nel 2011. Cattolica. "Sono tornata in Calabria dopo 15 anni per amore della mia terra. Non c'era nessuna legalità amministrativa. Ho interrotto l'appalto di sempre sui rifiuti, ho lavorato alla trasparenza delle gare. Abbiamo risparmiato molto, così, e assunto 12 persone da decenni precarie sotto ricatto. C'è a chi non piace. Guadagno 1400 euro. Chi fa politica deve essere sobrio e parco, le spese di rappresentanza se le deve pagare ciascuno col suo stipendio. Serve un rinnovamento radicale. L'antipolitica nasce dalla cattiva politica. Ho paura del populismo di Grillo, non mi piace la demagogia di Renzi. Aspetto di sapere meglio di Laura Puppato, in alternativa: Bersani".


Maria Teresa Collica, 48 anni, un figlio di 5. Sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto, 45 mila abitanti. Laureata in Giurisprudenza a Messina. Docente universitario. "Ho cominciato nel movimento civico 'Città apertà per sostenere Rita Borsellino alle regionali. Abbiamo fondato l'associazione antiracket, combattuto un mega parco commerciale per pericolo di infiltrazioni mafiose. La società faceva capo a Pio Cattafi, avvocato, indicato come terzo livello della Cosa Nostra messinese, ora agli arresti domiciliari. Abbiamo garantito la rotazione nei lavori di acquedotto e fognatura, di conseguenza quest'estate sono saltati tutti i tombini, sabotati. Abbiamo sforato il patto di stabilità e paghiamo una multa. La mia indennità è ridotta del 30 per cento, prendo 816 euro al mese. Ai dirigenti del Pd, il mio partito, dico: fatevi un esame di coscienza, i cittadini sono sfiduciati e giustamente, siamo fuori tempo massimo. La politica non sono calcoli matematici per le alleanze, serve il coraggio di fare scelte. Mi attaccano perché sono una donna. Ora per esempio dicono: è incinta. Non è vero, ma potrei governare anche se fossi incinta, no?. Credo che voterò Puppato".


Elisabetta Tripodi, 44 anni, due figli di 12 e 16. Sindaco di Rosarno, 15 mila abitanti. Avvocato, laureata a Parma. Eletta dopo il commissariamento per mafia e la rivolta dei migranti. "Sono tornata perché se tutti scappano non cambierà mai nulla, spero che più avanti i miei figli capiscano. Chiamano le donne a fare politica nei luoghi e nei momenti difficili pensando che siano più manovrabili, poi non le possono manovrare e le lasciano sole". Sotto scorta da un anno. Il boss Rocco Pesce, ergastolano, le ha inviato una lettera scritta a mano e imbucata dal carcere, la busta era di quelle del Comune. "Ci eravamo costituiti parte civile in un grande processo contro la cosca. Abbiamo confiscato la casa di sua madre e suo fratello. Pesce mi ha scritto: lei è così giovane.... Hanno incendiato macchine, tagliato alberi, fatto a pezzi animali. Ma io non posso permettermi di avere paura. Questo è anche il paese delle pentite di mafia, Giusi Pesce e Maria Concetta Cacciola. Tutte queste donne, loro ed io, stiamo combattendo per i nostri figli. Loro per sottrarli a un destino scritto, io perché voglio che restino qui. Certo che vado a votare alle primarie, anche se lo spettacolo visto da qui è desolante. La gente non si fida più di nessuno e ha ragione. Non è l'antipolitica il nostro nemico, è la brutta politica. Chissà se lo capiscono lassù a Roma che serve coraggio. Non è difficile, davvero. Venite a vedere qui da noi: ci sono donne ad ogni angolo di strada che si battono, in silenzio e da sole, come leoni".





venerdì 21 settembre 2012

Memoria e impegno. Il sacrificio di Rosario Livatino, "il giudice ragazzino"; il coraggio civile di Pietro Ivano Nava, testimone oculare dell'omicidio


Oggi ricorre l'anniversario della uccisione di Rosario Livatino. L'ennesima vittima innocente, l'ennesima "bella vita" schiacciata vilmente dalle mafie.
La vita, la morte e la memoria di Rosario Livatino sono l'occasione per sottolineare la responsabilità civile a cui noi cittadini siamo chiamati: solo grazie alla testimonianza Pietro Ivano Nava, il tranquillo rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, è stato possibile rendere giustizia a Rosario Livatino, individuando l'esecutore e i mandanti dell'assassinio del "giudice ragazzino"

Rosario Livatino, "Il giudice ragazzino" secondo una definizione coniata da Francesco Cossiga,  fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre - senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto - si recava in Tribunale.
Grazie alla testimonianza di Pietro Ivano Nava, il rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, per la sua morte sono stati individuati i componenti del commando omicida e i mandanti . Tutti condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di giudizio,  con pene ridotte per i "collaboranti".
Come Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale di Agrigento, Rosario Livatino si occupò di delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche, nel 1985, di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato. Dal 21 agosto '89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione. 

 "ALLA FINE DELLA VITA , QUANDO MORIREMO, NESSUNO CI  VERRA' A CHIEDERE SE SIAMO STATI CREDENTI, MA CREDIBILI "( Rosario Livatino)
La stele posta su una parete del  un bene confiscato alla mafia a Naro in provincia di Agrigento dove ha sede la cooperativa aperta nei mesi scorsi


La storia di Pietro Ivano Nava, il testimone dell'omicidio 

di Rosario Livatino. "COSI' PAGA CHI AIUTA LO STATO".


fonte La Repubblica 08 aprile 1992 

Di Giuseppe D’Avanzo
(…) Era un venerdì caldo e senza afa. Erano le nove del mattino. Pietro Ivano Nava, agente di commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a quattro chilometri da Agrigento.
Vide sul lato della strada una Ford Fiesta rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un ragazzotto con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una pistola. Insegue Rosario Livatino. Il "giudice ragazzino" di Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando la fuga in un vallone di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo braccherà come una bestia. Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto, sparerà ancora - quattro volte - per finirlo. Pietro Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene l' assassino in faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: "Ho visto l' assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo". E lo ha riconosciuto davvero Domenico Pace, l' assassino.
"Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l' uno né l' altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un' entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono...". Pietro Ivano Nava è oggi un fantasmaHa lasciato la casa di Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto per dieci anni. E' stato cancellato dai registri dell' anagrafe, dall' elenco telefonico, dal ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia romana, si è rifugiato su un' isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda. 
Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo
Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono. 
Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". ( N.d.r.: all'epoca dell'articolo era ancora da venire la Legge 41/2001 che introduce  la figura del "testimone di giustizia" nella giurisdizione italiana)
E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".

giovedì 13 settembre 2012

Gian Carlo Caselli: " C’ero anch’io, alla festa del “Fatto” di Marina di Pietrasanta,

Anche il procuratore di Torino Gian Carlo Caselli esprime il suo pensiero sulla presa di posizione del Consiglio Superiore della Magistratura nei confronti di Antonio Ingroia e Nino di Matteo.
Gian Carlo Caselli - 12 settembre 2012
"C’ero anch’io, alla festa del “Fatto” di Marina di Pietrasanta, domenica scorsa. E non fra le seimila persone assiepate sotto e intorno al palco. Proprio sul palco. Insieme con Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Marco Travaglio e Marco Lillo
sul palco della festa del Fatto Quotidiano, da sinistra: Nino di Matteo, Antonio Ingroia, Marco Travaglio,  Marco Lillo
e  Gian Carlo Caselli
  
Per assistere e partecipare – dall’inizio alla fine – all’iniziativa organizzata in occasione della consegna di oltre 150mila firme di cittadini raccolte dal “Fatto” per solidarietà verso i magistrati della Procura di Palermo.

Posso quindi dire – serenamente – che le reazioni del collega Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), mi sono sembrate decisamente sopra le righe. Sostiene Sabelli che la legittimazione della magistratura si fonda sulla fiducia e non sulla ricerca del consenso della piazza. Vero. Ma a Marina di Pietrasanta i magistrati di Palermo si sono limitati a prendere atto che un numero enorme di cittadini voleva esprimere loro proprio e solo fiducia. Fiducia per il lavoro di complessità assolutamente eccezionale che essi stanno svolgendo. Con un coraggio intellettuale non comune, essendosi inoltrati consapevolmente – guidati soltanto dall’interesse generale all’osservanza della legge – nel labirinto vischioso rubricato alla voce delle “trattative” fra Stato e mafia che si sarebbero variamente intrecciate, persino dandovi causa, con le stragi del 1992/93. Un labirinto nel quale si intravvedono o si intuiscono – oltre ad interessi propriamente criminali – altri interessi, non meno oscuri e torbidi. 
L’idea di raccogliere le firme è stata di Margherita Siciliano, una signora di Collegno, lettrice del “Fatto”, apparsa poi (anche lei era sul palco) piuttosto timida. Nulla che evochi piazze esagitate. Semplicemente un’iniziativa autenticamente popolare e spontanea, non richiesta né sollecitata in alcun modo dai magistrati. Un’iniziativa che il capo del Sindacato della magistratura dovrebbe apprezzare, anche perché ha determinato una valanga di adesioni (ben oltre ogni più ottimistica previsione) che rappresentano una formidabile manifestazione di fiducia verso la categoria. Esattamente quello che Sabelli chiede e che si inserisce nella situazione di difficoltà e di isolamento dei colleghi palermitani come una preziosa boccata d’ossigeno. 
Questa situazione di isolamento è stata denunziata soprattutto da Nino Di Matteo, che ha anche lamentato il silenzio assordante dell’Anm. Bè, dal capo dell’Anm mi sarei aspettato un contraddittorio basato sull’analitico e scrupoloso elenco degli interventi svolti a sostegno della Procura di Palermo, da tempo nell’occhio del ciclone di polemiche spesso pretestuose. Invece nulla di simile. Anzi, una stizzita presa di posizione che si è risolta in una serie di bacchettate su vari versanti: dall’accusa di sovraesposizione a quella di comportamenti oggettivamente politici che rischiano di offuscare l’imparzialità, soprattutto se si è titolari di inchieste che si prestano a strumentalizzazioni . Accuse che la magistratura palermitana (e non solo) sente ripetere da tempo e che possono facilmente essere contrastate dalla constatazione che non è la magistratura a essersi inventata i rapporti fra mafia e politica. Essi sono realtà della storia di ieri e di oggi del nostro Paese, e Ingroia – parlandone – non fa politica ma storia, peraltro senza mai entrare nel merito delle inchieste, ma proprio al fine di contrastare le strumentalizzazioni che giustamente preoccupano Sabelli. Il quale ha anche sostenuto che i magistrati presenti sul palco avrebbero dovuto dissociarsi, magari alzandosi e andandosene, da alcune considerazioni espresse nei confronti del presidente Napolitano. Senonché, dopo la consegna delle firme, l’iniziativa è proseguita non con un confronto-dibattito ma con l’esposizione di vari contributi autonomi. Difficile condividere la tesi che vi sarebbero responsabilità in caso di mancata esplicita dissociazione quando uno dei partecipanti all’iniziativa esponga sue opinioni su argomenti obiettivamente controversi. Fino a pretendere una qualche forma di dissenso plateale, quasi si trattasse di un talk-show qualunque. Credo che in questo modo si finisca per fare, involontariamente, un torto allo stesso presidente Napolitano. Perché non siamo più ai tempi (1852) del consigliere di cassazione Ignazio Costa della Torre, condannato ad una pesante sanzione (poi condonata in parte) perché in un opuscolo in difesa del privilegio della giurisdizione ecclesiastica aveva sostenuto, offendendo la persona sacra ed inviolabile del Re, che un ministro gli aveva posto in bocca il discorso della corona. Dallo Statuto Albertino siamo passati alla Costituzione repubblicana. Che impone ai magistrati, come a tutti i cittadini italiani, di rispettare l’istituzione Capo dello Stato, ma non impedisce di discutere – ad esempio – sull’opportunità o meno di sollevare il noto conflitto avanti alla Consulta.

mercoledì 12 settembre 2012

Perche le parole di Antonio Ingroia suscitano scandalo nel Consiglio Superiore della magistratura?


Ancora oggi, il vice presidente del Csm Michele Vietti si è espresso in relazione al "Il caso Ingroia". 
Antorio Ingroia
La polemica in atto è quella nata sulle intercettazioni ordinate dalla procura di Palermo a carico dell'on. Mancino e che hanno coinvolto il Capo dello Stato, interpellato telefonicamente da Mancino; da qui la  conseguente decisione di Napolitano di porre il conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale.

Il vicepresidente Vietti  ha dichiarato questa mattina: "Uscire dalla psicosi degli attacchi ed entrare nell'ottica del servizio al cittadino: è quello che devono fare i magistrati, oltre che "assicurare imparzialità" anche fuori dall'esercizio delle loro funzioni. (...) 
La risposta di Antonio Ingroia, non si è fatta attendere: "Ho il diritto di partecipare al dibattito pubblico, e rivendico il diritto di farlo ovunque. Se vado ad una festa del Pd non succede nulla, perchè se vado a quella de Il Fatto Quotidiano scoppia la polemica? Il problema per cui ci trasciniamo la mafia in questo paese è da ricercarsi nei rapporti fra Cosa nostra e Stato italiano. Io dico semplicemente, che nessun governo di maggioranza di centro destra o centro sinistra è immune da peccati".

Riportiamo le parole pronunciate alla festa del Fatto quotidiano e per le quali Antonio  Ingroia, insieme al collega Di Matteo, nei giorni scorsi è stato ripreso ufficialmente dal Rodolfo Sabelli, presidente del Consiglio Superiore della Magistratura

La mafia è un sistema di potere criminale, ha la sua forza dentro i piani alti delle società e pezzi delle istituzioni politiche. Per questa ragione abbiamo bisogno di voi. Non è questione di ricerca di consenso, è necessario che la gente sappia la verità non solo giudiziaria, ma quella storica e politica. Non è questione di addetti ai lavori – sostiene il magistrato – sappiamo bene che nel buio e nel silenzio si commettono le più grandi nefandezze. Io credo la posta in gioco sia alta, la campagna di stampa, di denigrazione contro la procura di Palermo nasce da interessi e obbiettivi inconfessabili. Si vuole fare piazza pulita di Palermo e delle chance di verità su quella stagione e di fare piazza pulita delle intercettazioni. Abbiamo fatto la nostra partita, abbiamo fatto il nostro lavoro. Abbiamo concluso la nostra indagine. Sarà un processo lungo, dei giudici valuteranno se le prove saranno sufficienti. Sappiamo, siamo consapevoli che è non emersa ancora tutta la verità su quella stagione. Abbiamo bisogno del vostro sostegno, dell’attenzione. Che i riflettori siano sempre accessi. Ad oggi in queste condizioni, questo è il massimo risultato”. 
Ingroia poi parla del Parlmento delle “leggi ad personam” e del “disastro legislativo” che ha provocato e quindi invoca una legge che punisca lo scambio di favori tra politica e mafia, una legge sull’autoriciclaggio
Infine l’appello: “Tocca a voi – dice al pubblico – non essere tifosi e spettatori. Dovete cambiare questo ceto politico, questa classe dirigente perché io credo che per voltare pagina si deve smettere con questa politica di convivenza con la mafia che ha caratterizzato tutta la storia del nostro paese”. E infine: “Capisco che il libro dei sogni ha troppe pagine, sappiate che il vostro futuro è nelle vostre mani”. 
Antonio Ingroia





venerdì 7 settembre 2012

Le mani delle mafie su Roma. Gli affari degli uomini "cerniera". I faccendieri romani legati alle cosche

L'articolo di Tiziano Terzan e Fabio Tonacci pubblicato oggi su La Repubblica, a nostro parere, conferma i contenuti dell'intervento che il dott. Ciro Santoriello, Procuratore della Repubblica di Pinerolo ad interim, ha concesso al Presidio Rita Atria e ai partecipanti della  Cena della Legalità, svoltasi a Pinerolo lo scorso 21 luglio 2012. Anticipiamo uno stralcio della riflessione del procuratore Ciro Santoriello:  
"(...) La mafia non è un fenomeno criminale, è una scelta di vita. Il mafioso è colui che vuole il denaro, il potere, che vuole più di quello che gli spetta per quanto ha lavorato, ha studiato, ha sofferto. Ci sono alcuni che questo denaro, questo potere lo prendono con la forza, con la violenza; altri che, non avendo questa possibilità ma volendo lo stesso godere di beni che non merita, si rivolge ad altri che minaccino, che uccidano per lui. Sono diversi, ma anche uguali, perché per entrambi l'importante è possedere, comandare, imporre, essere potente, apprezzato, invidiato." Ciro Santoriello


Gli affari degli uomini "cerniera". I faccendieri romani legati alle cosche. 
Tiziano Terzan e Fabio Tonacci 
fonte: LA REPUBBLICA - 06 settembre 2012
Sono imprenditori, soprattutto. Ma anche politici, manager, avvocati, traffichini. Affaristi che hanno capito che con la ricca 'ndrangheta possono fare fortuna. In cambio, stanno consegnando le chiavi di Roma ai capi mafiosi

ROMA  - Lavorano come romani, pensano come 'ndranghetisti. Le cosche non li affiliano, gli concedono il grado di "compari". Per gli investigatori dell'Antimafia invece sono "uomini cerniera". Romani nati e cresciuti nella capitale, che nella capitale vivono e fanno affari, ma con la testa rivolta alle cosche di Reggio Calabria. Imprenditori, soprattutto. Ma anche politici, manager, faccendieri, avvocati, traffichini. Uomini che hanno capito che con la ricca 'ndrangheta possono fare fortuna. Oliando gli ingranaggi dell'assegnazione degli appalti, ad esempio. Sfruttando le mille scorciatoie criminali offerte dai clan. In cambio, stanno consegnando le chiavi di Roma ai capi mafiosi. Chi sono i romani che hanno stretto un patto con i padrini calabresi, fornendogli il know how per investire i miliardi della droga? Come operano?

Il compare
Quando il 29 novembre del 2010 viene arrestato per traffico internazionale di cocaina, Federico Marcaccini a Roma è già un gigante. Tutti lo chiamano col suo soprannome, "er pupone". Ha appena 32 anni, ma è straricco e lo fa vedere. È un "self made man" che i soldi li ha fatti con imprese edili, immobiliari e col commercio d'automobili. La Direzione investigativa antimafia gli sequestra un impero di società e immobili che vale 115 milioni di euro. 
Marcaccini è "un compare", è entrato in confidenza con i figli di Giuseppe Pelle, del clan di San Luca, guidato fino al 2009 da quell'Antonio "gambazza" che è stato uno dei boss più influenti della 'ndrangheta. Er pupone parla con Antonio (26 anni, residente a Roma) e Sebastiano. I magistrati di Catanzaro che lo intercettano al telefono nell'indagine "Overloading", che ha portato in carcere una settantina di persone, scrivono: "Tra loro si è instaurato un rapporto di comparaggio". Addirittura Marcaccini gli "affida" la madre in visita in Calabria. "So che viene giù questo fine settimana mia mamma... - dice ad Antonio - giù a fare una passeggiata... magari offrigli un caffè, no?". Favori che si scambiano, affari che nascono. E il "pupone" è il perno romano della cosca.
Secondo l'accusa avrebbe finanziato l'acquisto di partite di cocaina. Insomma un impresario a tutto tondo. Un uomo cerniera, che salda il sottobosco mafioso con il tessuto economico legale. La Dia gli confisca il palazzo che ospita il teatro Ghione, vicino a Piazza San Pietro. Un edificio prestigioso sporcato dai denari della coca. Ma Federico Marcaccini detto "er pupone" è qualcosa di più di un palazzinaro. Nella rete delle proprietà a lui riconducibili figura la So. Ge. Sa, una spa che gestisce servizi aeroportuali nonché ex sponsor della squadra femminile di pallavolo della città quando militava in serie A2.
Il giovane e rampante imprenditore romano è anche socio occulto, secondo i documenti in mano agli investigatori antimafia, di Tiburtina Gestione, società attiva nella raccolta e nel trattamento rifiuti. Anche questa sequestrata. Ad amministrarla c'è una donna indicata negli atti come una fedelissima prestanome di Marcaccini. Si scopre che la Tiburtina Gestione è una creatura di Vittorio Ugolini e Vincenzo Fiorillo, entrambi "ras" del business della monnezza romana. I due imprenditori nel 1997 sono finiti sotto la lente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti per un ritrovamento, il più grande fino ad allora, di fusti contenti rifiuti industriali nocivi nell'area di smaltimento gestita dalla Sir, la loro società. E i due erano in società, in altri affari, con Liborio Polizzi, ex presidente del Palermo calcio condannato per mafia nel 1998. Tasselli del mosaico di relazioni messo in piedi da Marcaccini, il compare dei Pelle, l'uomo che crea contatti, fa parlare le persone tra loro, suggerisce affari, gravita in questo mucchio indistinto dai contorni grigi.
"L'ascesa e la caduta di Marcaccini è emblematica  spiega Giuseppe Borrelli, procuratore aggiunto della procura antimafia di Catanzaro  -  arriva a trafficare droga con la 'ndrangheta, ma non ne fa mai parte organicamente. Non è un affiliato. La sua storia racconta l'esistenza di imprenditori romani che si rapportano da pari con i boss, e viceversa" . Uno scambio che ha un solo collante, il business.
"Le cosche vanno a Roma, la città del potere, per investire  -  ragiona Borrelli  - ma a ma anche per cercare appoggi e ottenere lavori in tutta Italia". 

Il segretario massone. 
Per farlo ci vogliono uomini giusti nei posti giusti. Il nome di Vincenzo Stalteri, calabrese della Locride trapiantato a Roma e attuale segretario generale alla provincia di Roma presieduta da Nicola Zingaretti, spunta in un'informativa del Ros dei Carabinieri di Reggio Calabria.
Gli investigatori intercettano Domenico Barbieri e Vitaliano Grillo Brancati imputati per 'ndrangheta nel processo Meta, il più importante dibattimento in corso in Calabria. I due tirano dentro Stalteri e il suo passato come segretario comunale a Palmi quando sindaco era Armando Veneto, avvocato di pezzi grossi della 'ndrangheta e politico del Pdl. Lo definiscono - si legge nell'informativa - "professionista fidato" e "massone iscritto alla stessa loggia di Rocco Nasone (boss della provincia di Reggio Calabria ndr)".
Stalteri ha un curriculum ineccepibile, ha ricoperto numerosi incarichi in diverse province e comuni d'Italia, da Nord a Sud. Nel 2008 Zingaretti ha selezionato il suo nome dall'albo nazionale dei revisori dei conti. Dagli atti di Reggio Calabria, però, vengono fuori ombre.
I carabinieri sul suo conto riportano una denuncia risalente al 2000 per reati contro l'amministrazione di Palmi e nel 2008 un deferimento disposto dal Nucleo di polizia tributaria di Catanzaro per abuso d'ufficio, "poiché in qualità di ragioniere pro tempore del comune di Gioia Tauro", approvava l'affidamento di alcuni incarichi a operatori che non ne avevano diritto. Barbieri e Brancati, legati ai De Stefano, ne tracciano il profilo, profilo presunto perché Stalteri non è stato indagato nell'indagine Meta. "Qua (a Palmi, ndr) mi sono inserito io tramite il Dottor Stalteri - racconta Barbieri a Brancati, durante un viaggio in macchina - era un segretario comunale massone". Inserito nell'assegnazione degli appalti, intende Barbieri. E il Ros li elenca uno per uno, nell'informativa. Millanterie di due imprenditori della 'ndrangheta o una conoscenza reale?
06 settembre 2012

giovedì 6 settembre 2012

Ad Angelo l’ha ammazzato la camorra: la malavita che prevale sulla buona vita.


Ricordate i morti! 
No! Vogliamo ricordare uomini i quali, per  il significato delle azioni che  hanno compiuto nella loro vita, sono stati uccisi da coloro che vedevano in quegli uomini un pericolo per il sistema criminale che domina in tante parti d'Italia. 
Sono tanti gli uomini che, come Angelo Vassallo, sono stati però lasciati soli dalle istituzioni di una nazione che troppe volte ha dimostrato di non voler combattere  le mafie con serietà , continuità ed efficacia.
Angelo Vassallo aveva combattuto per preservare la bellezza del territorio che era stato chiamato ad amministrare.
Anche per questo è stato ucciso la sera del 5 settembre 2010.
A due anni non sono ancora stati scoperti nè i suoi assassini nè le ragioni della sua morte. 
A noi resta il significato della sua vita e della sua azione di amministratore

Stralcio di un capitolo del libro «Il sindaco pescatore» di Dario Vassallo, fratello di Angelo Vassallo:
“Le nove e un quarto di sera del 5 settembre 2010: Angelo Vassallo ha ancora pochi minuti di vita. Sta rientrando dopo una giornata trascorsa a Cuccaro Vetere dove è stato ospite di un politico, Antonio Valiante, insieme ad altri sindaci — avrà mangiato l’Acqua Sale che gli piaceva tanto. L’ha accompagnato Luca Marinelli, un ormeggiatore, uno di famiglia. Verso le 19 Angelo ha fatto un passaggio sul porto di Acciaroli, ha dato un'occhiata al suo mare, le solite quattro chiacchiere con gli amici e un paio d’ore dopo è ripartito e ha deciso di prendere la via di sinistra. Qualcuno lo segue con lo scooter e non lo perde mai di vista — sono sicuro che è andata così. Gira a destra, mio fratello, e comincia a salire sulla stradina che, giusto tre mesi prima, aveva fatto asfaltare. È lunga meno di un chilometro. A un certo punto frena di colpo: un’auto bloccata sul lato destro, proprio davanti alla sua, lo obbliga a fermarsi e a spostarsi dalla parte opposta, contromano. I lampioni sono insolitamente (volutamente) spenti. Angelo non ha la percezione del pericolo: non l’ha mai avuta. Si sarebbe fermato anche se avesse incontrato il diavolo. Un’ombra si avvicina al cristallo di sinistra. Sono sicuro che il bastardo prima di farlo fuori gli urla: «Sindaco del cazzo, ora ti sparo!» E lui: «Sai dove te la devi mettere la pistola?» Nove colpi, sette lo centrano.
L’assassino fa fuoco da meno di mezzo metro, e riesce a sbagliare due volte. Un proiettile scheggia la mano sinistra di Angelo che, d’istinto, prova a proteggersi — non lo immagino fragile e vinto. Nove colpi, nove botti che nessuno sente. Eppure, adesso, scorgo due persone che cenano sul terrazzo della casa nascosta dagli ulivi: è a poche decine di metri dall’angolo morto. Cenavano sul terrazzo anche la sera del 5? E perché non hanno sentito? E com’è possibile che la signora che è passata da quelle parti pochi minuti dopo non si sia accorta di nulla? Ha visto l’Audi di Angelo ferma sul lato sinistro, una posizione insolita, l’ha riconosciuta; dentro c’era il sindaco, ma ha pensato che stesse telefonando. Come ha potuto, il bastardo che ha sparato, fallire due volte da quella distanza? L’ha fatto apposta per far credere che si trattasse di un dilettante? 
Ad Angelo l’ha ammazzato la camorra: la malavita che prevale sulla buona vita.
O possono essere stati quei drogati che l’avevano minacciato qualche giorno prima sul porto. I servizi, sono stati i servizi segreti perché il modello di sviluppo di Angelo Vassallo spaventava a morte il potere, quello vero: l’obiettivo raggiunto dal sindaco pescatore era lo sviluppo del territorio a costo zero. Ipotesi, dubbi, congetture, improvvise folgorazioni, mille inevitabili domande. Se riparto adesso senza una risposta sprofondo immediatamente nell’abisso.
Cerco di riordinare le idee e di farle coincidere con le poche tracce, ma la confusione di quella notte rende tutto più complicato. Quando arrivai da Roma, sconvolto, trovai una ventina di persone attorno all’auto, carabinieri, il pubblico ministero Alfredo Greco, gente comune, inutili curiosi, un paio d’auto passarono indisturbate; il corpo di Angelo non c’era già più — prevalevano il disordine e le lacrime, la notte dell’assassinio di un giusto. Un disordine voluto? Mi hanno parlato falsamente e ognuno mi ha detto una cosa diversa.”
Dario Vassallo

lunedì 3 settembre 2012

L'ultima intervista del generale Dalla Chiesa.


Il 10 agosto 1982 Giorgio Bocca, allora giornalista de La Repubblica, intervista il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato Prefetto di Palermo. 
Nell'intervista, il generale Dalla Chiesa mostra a quale profondità fosse giunta la sua analisi del fenomeno mafioso. Nelle risposte del generale sono presenti tutti i temi, tutti i filoni, su cui si doveva indirizzare l'azione dello Stato, se davvero si voleva combattere la mafia: dall'inutilità del "soggiorno obbligato", all'espansione delle mafie al Nord; dall'accumulazione primitiva del capitale mafioso all'attività di riciclaggio per mezzo di attività e soggetti "insospettabili". Infine, l'affermazione che più di altre sottolinea l'inefficienza e le mancate risposte ai cittadini da parte delle istituzioni: "(...)Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato."(...)Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati".

PALERMO, 10 agosto 1982.
La Mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte, sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del "wind surf" nel mare azzurro di Mondello. Ma è soprattutto il modo che offende, il "segno" che esso dà al generale Carlo Alberto dalla Chiesa e allo Stato: i killer girano su potenti motociclette, sparano nel centro degli abitati, uccidono come gli pare, a distanza di dieci minuti da un delitto all'altro. 
Dalla Chiesa è nero:Da oggi la zona sarà presidiata, manu militari. Non spero certo di catturare gli assassini ad un posto di blocco, ma la presenza dello Stato deve essere visibile, l'arroganza mafiosa deve cessare”.
Questo Dalla Chiesa in doppio petto blu prefettizio vive con un certo disagio la sua trasformazione: dai bunker catafratti di Via Moscova, in Milano, guardati da carabinieri in armi, a questa villa Wittaker, un po’ lasciata andare, un po’ leziosa, fra alberi profumati, poliziotti assonnati, un vecchio segretario che arriva con le tazzine del caffè e sorride come a dire: ne ho visti io di prefetti che dovevano sconfiggere la Mafia.

- Generale, vorrei farle una domanda pesante. Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai ?
Beh, sono di certo nella storia italiana il primo generale dei carabinieri che ha detto chiaro e netto al governo: una prefettura come prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa. Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell'interesse dello Stato
- Credevo che il governo si fosse impegnato, se ricordo bene il Consiglio dei Ministri del 2 aprile scorso ha deciso che lei deve ”coordinare sia sul piano nazionale che su quello locale” la lotta alla Mafia.

Non mi risulta che questi impegni siano stati ancora codificati.

- Vediamo un po’ generale, lei forse vuol dirmi che stando alla legge il potere di un prefetto è identico a quello di un altro prefetto ed è la stessa cosa di quello di un questore. Ma è implicito che lei sia il sovrintendente, il coordinatore.

Preferirei l'esplicito

- Se non ottiene l'investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione?

Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla Mafia, non per discutere di competenze e di precedenze. Ma non mi faccia dire di più.

- No, parliamone, queste faccende all'italiana vanno chiarite. Lei cosa chiede? Una sorta di dittatura antimafia? I poteri speciali del prefetto Mori?

Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza. Mio padre al tempo di Mori comandava i carabinieri di Agrigento. Mori poteva servirsi di lui ad Agrigento e di altri a Trapani a Enna o anche Messina, dove occorresse. Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel "pascolo" palermitano e non nel resto d'Italia non farebbe che perdere tempo.

Lei cosa chiede? L'autonomia e l'ubiquità di cui ha potuto disporre nella lotta al terrorismo?

Ho idee chiare, ma capirà che non è il caso di parlarne in pubblico. Le dico solo che le ho già, e da tempo, convenientemente illustrate nella sede competente. Spero che si concretizzino al più presto. Altrimenti non si potranno attendere sviluppi positivi.

Ritorna con la Mafia il modulo antiterrorista? Nuclei fidati, coordinati in tutte le città calde?

Il generale fa un gesto con la mano, come a dire, non insista, disciplina giovinetto: questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali. Difficile da capire.

- Generale, noi ci siamo conosciuti qui negli anni di Corleone e di Liggio, lei è stato qui fra il '66 e il '73 in funzione antimafia, il giovane ufficiale nordista de Il giorno della civetta. Che cosa ha capito allora della Mafia e che cosa capisce oggi, 1982?

Allora ho capito una cosa, soprattutto: che l'istituto del soggiorno obbligatorio era un boomerang, qualcosa superato dalla rivoluzione tecnologica, dalle informazioni, dai trasporti. Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto: " Brave persone". Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano venuti qui a Palermo o che tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi.
-E oggi?

Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?
- Scusi la curiosità, generale. Ma quel Ferlito mafioso, ucciso nell'agguato sull'autostrada, si quando ammazzarono anche i carabinieri di scorta, non era il cugino dell'assessore ai lavori pubblici di Catania ?
- E come andiamo generale, con i piani regolatori delle grandi città? È vero che sono sempre nel cassetto dell'assessore al territorio e all'ambiente?
Così mi viene denunziato dai sindaci costretti da anni a tollerare l'abusivismo.


IL CASO MATTARELLA 


- Senta Generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso. Cosa è successo, generale?

- È accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l'impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della Mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del "palazzo". Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato.
- Mi spieghi meglio.

Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità dell'amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l'esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme del caso Coco.
- Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?

Direi di sì. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato.
- Generale, mi sbaglio o lei ha una idea piuttosto estesa dei mandanti morali e dei complici indiretti? No, non si arrabbi, mi dica piuttosto perché fu ucciso il comunista Pio La Torre.


Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla "associazione a delinquere" la associazione mafiosa.
- Non sono la stessa cosa? Come si può perseguire una associazione mafiosa se non si hanno le prove che sia anche a delinquere?
E' materia da definire. Magistrati, sociologi, poliziotti, giuristi sanno benissimo che cosa è l'associazione mafiosa. La definiscono per il codice e sottraggono i giudizi alle opinioni personali. 
- Come si vede lei generale Dalla Chiesa di fronte al padrino del Giorno della civetta?
Stiamo studiandoci, muovendo le prime pedine. La Mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana. Un altro non se ne accorgerebbe, ma io questo mondo lo conosco.
- Mi faccia un esempio.
Certi inviti. Un amico con cui hai avuto un rapporto di affari, di ufficio, ti dice, come per combinazione: perché non andiamo a prendere il caffè dai tali. Il nome è illustre. Se io non so che in quella casa l'eroina corre a fiumi ci vado e servo da copertura. Ma se io ci vado sapendo, è il segno che potrei avallare con la sola presenza quanto accade.
- Che mondo complicato. Forse era meglio l'antiterrorismo.

In un certo senso si, allora avevo dietro di me l'opinione pubblica, l'attenzione dell'Italia che conta. I gambizzati erano tanti e quasi tutti negli uffici alti, giornalisti, magistrati, uomini politici. Con la Mafia è diverso, salvo rare eccezioni  la Mafia uccide i malavitosi, l'Italia per bene può disinteressarsene. E sbaglia.
- Perché sbaglia, generale?
La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. Vede, a me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page
Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.
- E deposita nelle banche coperte dal segreto bancario, no, generale ?
Il segreto bancario. La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla Mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale.
Generale dalla Chiesa, da dove nascono le sue grandissime ambizioni Mi guarda incuriosito.
Voglio dire, generale: questa lotta alla Mafia l'hanno persa tutti, da secoli, i Borboni come i Savoia, la dittatura fascista come le democrazie pre e post fasciste , Garibaldi e Petrosino, il prefetto Mori e il bandito Giuliani, l'ala socialista dell'Evis indipendente e la sinistra sindacale dei Rizzuto e dei Cannavale, la Commissione parlamentare di inchiesta e Danilo Dolci. Ma lei Carlo Alberto dalla Chiesa si mette il doppio petto blu prefettizio e ci vuole riprovare.
Ma sì, e con un certo ottimismo sempre che venga al più presto definito il carattere della specifica investitura con la quale mi hanno fatto partire. Io, badi, non dico di vincere, di debellare, ma di contenere. Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro psicologico si può sottrarre alla Mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati.

Si va a pranzo in un ristorante della Marina con la signora dalla Chiesa, oggetto misterioso della Palermo del potere. Milanese, giovane, bella. Mah! In apparenza non ci sono guardie, precauzioni. Il generale assicura che non c'erano neppure negli anni dell'antiterrorismo. Dice che è stata la fortuna a salvarlo le tre o quattro volte che cercarono di trasferirlo a un mondo migliore.

(gen. Dalla Chiesa)-Doveva uccidermi Piancone la sera che andai al convegno dei Lyons. Ma ci andai in borghese e mi vide troppo tardi. Peci, quando lo arrestai, aveva in tasca l'elenco completo di quelli che avevano firmato il necrologio per la mia prima moglie. Di tutti sapevano indirizzo, abitudini, orari. Nel caso mi fossi rifugiato da uno di loro, per precauzione. Ma io precauzioni non ne prendo. Non le ho prese neppure nei giorni in cui su "Rosso" appariva la mia faccia al centro del bersaglio da tirassegno,con il punteggio dieci, il massimo  Se non è istigazione ad uccidere questa?.
- Generale, sinceramente, ma a lei i garantisti piacciono ?
Dagli altri tavoli ci osservano in tralice. Quando usciamo qualcuno accenna un inchino e mormora: “Eccellenza”.