Nel pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San
Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, la festa del
primo maggio 1947, a cui partecipavano migliaia di persone, fu
interrotta da una sparatoria che, secondo le fonti ufficiali, causò 11
morti e 27 feriti. Successivamente, per le ferite riportate, ci furono
altri morti e il numero dei feriti varia da 33 a 65.
I contadini dei paesi vicini erano soliti radunarsi a Portella della
Ginestra per la festa del lavoro già ai tempi dei Fasci siciliani, per
iniziativa del medico e dirigente contadino Nicola Barbato, che era
solito parlare alla folla da un podio naturale che fu in seguito
denominato "sasso di Barbato". La tradizione venne interrotta durante il
fascismo e ripresa dopo la caduta della dittatura. Nel 1947 non si
festeggiava solo il primo maggio ma pure la vittoria dei partiti di
sinistra raccolti nel Blocco del popolo nelle prime elezioni regionali
svoltesi il 20 aprile. Sull'onda della mobilitazione contadina che si
era andata sviluppando in quegli anni le sinistre avevano ottenuto un
successo significativo, ribaltando il risultato delle elezioni per
l'Assemblea costituente. La Democrazia cristiana era scesa dal 33,62% al
20,52%, mentre le sinistre avevano avuto il 29,13% (alle elezioni
precedenti il Psi aveva avuto il 12,25% e il Pci il 7,91%).
La campagna elettorale era stata abbastanza animata, non erano
mancate le minacce e la violenza mafiosa aveva continuato a mietere
vittime. Il 1947 era cominciato con l'assassinio del dirigente comunista
e del movimento contadino Accursio Miraglia (4 gennaio) e il 17 gennaio
era stato ucciso il militante comunista Pietro Macchiarella; lo stesso
giorno i mafiosi avevano sparato all'interno del Cantiere navale di
Palermo. Alla fine di un comizio il capomafia di Piana Salvatore Celeste
aveva gridato: "Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo
non avrà né padre né madre" e la stessa mattina del primo maggio a San
Giuseppe Jato la moglie di un "qualunquista truffatore" - come si legge
in un servizio del quotidiano "La Voce della Sicilia" - aveva avvertito
le donne che si recavano a Portella: "Stamattina vi finirà male" e a
Piana un mafioso non aveva esitato a minacciare i manifestanti: "Ah sì,
festeggiate il 1° maggio, ma vedrete stasera che festa!" (in Santino
1997, p. 150). Eppure nessuno si aspettava che si arrivasse a sparare
sulla folla inerme, ormai lontana la memoria dei Fasci siciliani e dei
massacri successivi.
Prima i mafiosi e i partiti conservatori poi solo i banditi
La matrice della strage appare subito chiara: la voce popolare parla
dei proprietari terrieri, dei mafiosi e degli esponenti dei partiti
conservatori e i nomi sono sulla bocca di tutti: i Terrana, gli Zito, i
Brusca, i Romano, i Troia, i Riolo-Matranga, i Celeste, l'avvocato
Bellavista che durante la campagna elettorale aveva tuonato contro le
forze di sinistra e a difesa degli agrari. I carabinieri telegrafano:
"Vuolsi trattarsi organizzazione mandanti più centri appoggiati maffia
at sfondo politico con assoldamento fuori legge"; "Azione terroristica
devesi attribuire elementi reazionari in combutta con mafia" (ivi, p.
153). Vengono fermate 74 persone tra cui figurano mafiosi notori.
All'Assemblea costituente il giorno dopo la strage Girolamo Li Causi,
segretario regionale comunista, lancia la sua accusa: dopo il 20 aprile
c'è stata una campagna di provocazioni politiche e di intimidazioni,
durante la strage il maresciallo dei carabinieri si intratteneva con i
mafiosi e tra gli sparatori c'erano monarchici e qualunquisti. Viene
interrotto da esponenti dei qualunquisti e della destra e il ministro
degli interni Mario Scelba dichiara che non c'è un "movente politico",
si tratta solo di un "fatto di delinquenza" (ivi, p. 155). Scelba
ritorna sull'argomento in un'intervista del 9 maggio: "Trattasi di un
episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona
fortunatamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari"
(ivi, p. 159). Nel frattempo i fermati vengono rilasciati e si afferma
la pista che porta alla banda Giuliano, il cui nome viene fatto
dall'Ispettore di Pubblica Sicurezza Ettore Messana, lo stesso che l'8
ottobre 1919 aveva ordinato il massacro di Riesi (15 morti e 50 feriti) e
che ora Li Causi addita come colui che dirige il "banditismo politico".
La banda Giuliano sarà pure indicata come responsabile degli attentati
del 22 giugno in vari centri della Sicilia occidentale, con morti e
feriti.
L'inchiesta giudiziaria si concentra sui banditi e procede con
indagini frettolose e superficiali: non si fanno le autopsie sui corpi
delle vittime e le perizie balistiche per accertare il tipo di armi
usate per sparare sulla folla. Il 17 ottobre 1948 la sezione istruttoria
della Corte d'appello di Palermo rinvia a giudizio Salvatore Giuliano e
gli altri componenti della banda. La Corte di Cassazione, per legittima
suspicione, decide la competenza della Corte d'assise di Viterbo, dove
il dibattimento avrà inizio il 12 giugno 1950 e si concluderà il 3
maggio 1952, con la condanna all'ergastolo di 12 imputati (Giuliano era
stato assassinato il 5 luglio del 1950).
Nella sentenza, a proposito della ricerca della causale, si sostiene
che Giuliano compiendo la strage e gli attentati successivi ha voluto
combattere i comunisti e si richiama la tesi degli avvocati difensori
secondo cui la banda Giuliano aveva operato come "un plotone di
polizia", supplendo in tal modo alla "carenza dello Stato che in quel
momento si notò in Sicilia" (ivi, pp. 191 s). Cioè: la violenza
banditesca era stata impiegata come risorsa di una strategia politica
volta a colpire le forze che si battevano contro un determinato sistema
di potere. Restava tra le righe che le "carenze dello Stato" erano da
attribuire all'azione della coalizione antifascista allora al governo
del Paese. La sentenza di Viterbo non toccava il problema dei mandanti
della strage e dell'offensiva contro il movimento contadino e le forze
di sinistra, affermando esplicitamente che la causa doveva essere
ricercata altrove.
Contro la sentenza fu proposto appello e il processo di secondo grado
si svolse presso la Corte d'assise d'appello di Roma (nel frattempo
molti degli imputati, tra cui Gaspare Pisciotta, erano morti). La
sentenza del 10 agosto 1956 confermava alcune condanne, riducendo la
pena, e assolveva altri imputati per insufficienza di prove. Con
sentenza del 14 maggio 1960 la Corte di Cassazione dichiarava
inammissibile il ricorso del pubblico ministero e così la sentenza
d'appello diventava definitiva.
Una strage per il centrismo
Nella storia d'Italia il 1947 è un anno di svolta e la strage di
Portella ha avuto un ruolo nello stimolare e accelerare questa svolta,
intrecciandosi con dinamiche che maturano a livello locale, nazionale e
internazionale. Il 13 maggio si apre la crisi politica con le dimissioni
del governo di coalizione antifascista presieduto da De Gasperi. Il 30
maggio a Roma e a Palermo si formano i nuovi governi: De Gasperi
presiede un governo centrista con esclusione delle sinistre e alla
Regione siciliana il democristiano Giuseppe Alessi presiede un governo
minoritario appoggiato dai partiti conservatori, senza la partecipazione
del Blocco del popolo, nonostante la vittoria alle elezioni del 20
aprile. Si apre così una nuova fase della storia d'Italia, in cui le
forze di sinistra saranno all'opposizione. La svolta si inserisce nella
prospettiva aperta dagli accordi di Yalta che hanno codificato la
divisione del pianeta in due grandi aree di influenza, con l'Italia
dentro lo schieramento atlantico egemonizzato dagli Stati Uniti e la
guerra fredda come strategia di contrasto e di contenimento del potere
sovietico.
Nel gennaio del '47 De Gasperi era andato negli Stati Uniti ma è
frutto di una visione semplificatrice pensare che abbia ricevuto
l'ordine di sbaraccare le sinistre dal governo. In realtà la svolta del
'47 è figlia di un matrimonio consensuale in cui interessi locali,
nazionali e internazionali coincidono perfettamente. Il messaggio
contenuto nella strage è stato pienamente recepito e da ora in poi a
governare, accanto alla Democrazia cristiana che nelle elezioni del 18
aprile 1948 si afferma come partito di maggioranza relativa, dopo una
campagna elettorale volta a esorcizzare il "pericolo rosso", saranno i
partiti conservatori vanamente indicati come mandanti del massacro. In
questo quadro la Chiesa cattolica ha un ruolo di primo piano. Il
cardinale Ernesto Ruffini, a proposito della strage di Portella e degli
attentati del 22 giugno, scrive che era "inevitabile la resistenza e la
ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e
alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti" (in Santino
2000, p. 180), plaude all'estromissione delle sinistre dal governo, ma
la sua proposta di mettere i comunisti fuori legge, rivolta a De Gasperi
e a Scelba, rimarrà inascoltata. I dirigenti democristiani sanno
perfettamente che sarebbe la guerra civile.
Alla ricerca dei mandanti
La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori
individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell'ottobre del 1951
Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente
comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia
contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e
Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l'ispettore
Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del
Tribunale di Palermo decidevano l'archiviazione. Successivamente i nomi
dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della
Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963.
Nel novembre del 1969 il figlio dell'appena defunto deputato Antonio
Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli
una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera
si dice che l'esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a
Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che
erano costantemente in contratto con Giuliano i monarchici Alliata e
Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori,
il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che
Giuliano aveva avuto l'assicurazione che sarebbe stato amnistiato (in
Santino 1997, p. 207).
Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo
del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio
del 1972 approverà all'unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e
banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi
documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito
della strage scriveva: "Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la
strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre,
avvolte nel mistero. Attribuire la responsabilità diretta o morale a
questo o a quel partito, a questa o quella personalità politica non è
assolutamente possibile allo stato degli atti e dopo un'indagine lunga e
approfondita come quella condotta dalla Commissione. Le personalità
monarchiche e democristiane chiamate in causa direttamente dai banditi
risultano estranee ai fatti". Il relatore, il senatore Marzio
Bernardinetti, addebitava i risultati deludenti alla mancata o scarsa
collaborazione delle autorità: "Il lavoro, cui il comitato di indagine
sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili
condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di
giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che
ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate
informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un
responsabile contributo all'approfondimento delle cause che resero così
lungo e travagliato il fenomeno del banditismo" (in Testo
integrale...1973).
Nel 1977, in pieno clima di "compromesso storico" tra Partito
comunista e Democrazia cristiana, ben poco propizio alla ricerca della
verità, il Centro siciliano di documentazione comincia la sua attività
con un convegno nazionale dal titolo "Portella della Ginestra: una
strage per il centrismo" in cui si ricostruisce il quadro in cui è
maturata la strage, considerata non come il prodotto di un
disorientamento e di un vuoto politico (come sosteneva anche la
storiografia di sinistra: Francesco Renda considerava l'uso della
violenza come "repugnante delinquenza comune" e un "errore grossolano"
che avrebbe portato all'isolamento dei proprietari terrieri: Renda 1976,
p. 23) ma come "un atto di lucida, e ragionata, violenza volto a
condizionare il quadro politico, regionale e nazionale" purtroppo
coronato da successo (Centro siciliano di documentazione 1977; Santino
1997, pp. 8, 60).
Successivamente ci sono state varie pubblicazioni, più meno
documentate, sulla strage e sulla banda Giuliano (Galluzzo 1985, Magrì
1987, Barrese - D'Agostino 1997, Renda 2002) e l'interpretazione della
strage di Portella come "strage di Stato" ha segnato buona parte dei
lavori del convegno che si è svolto nel maggio del 1997, nel
cinquantesimo anniversario (Manali, a cura di, 1999; Santino ivi). Il
convegno si concluse con la richiesta della desecratazione della
documentazione raccolta dalla Commissione antimafia, pubblicata negli
anni successivi in vari volumi (Commissione antimafia 1998-99). Nel
frattempo la costituzione dell'Associazione "Non solo Portella", ad
opera di familiari delle vittime, e l'attività di ricerca del suo
presidente, lo storico Giuseppe Casarrubea, figlio di una delle vittime
dell'attentato di Partinico del 22 giugno, hanno portato a significativi
risultati (Casarrubea 1997, 1998, 2001). Anche sulla base di perizie
effettuate sui corpi di alcuni superstiti si è documentato che tra le
armi utilizzate c'erano bombe-petardo di produzione americana; da
testimonianze risulta che tra gli esecutori c'erano mafiosi e le
ricerche sui materiali dell'archivio dell'Oss (Office of Strategic
Services) e del Sis (Servizio Informazioni e Sicurezza) del ministero
dell'Interno hanno prodotto ulteriore documentazione sul ruolo degli
Stati Uniti (già documentato precedentemente: sugli incontri del bandito
Giuliano con l'agente americano Michael Stern: Sansone - Ingrascì 1950,
pp.143-150; sulla politica estera degli Stati Uniti, ricostruita
attraverso documenti d'archivio: Faenza - Fini 1976) e rivelato i
rapporti tra banditismo e formazioni neofasciste (Vasile 2004, 2005).
Ricostruzioni recenti (La Bella - Mecarolo 2003) hanno contribuito ad
arricchire il quadro della documentazione sul contesto, sono stati
pubblicati significativi documenti degli archivi italiani e americani
sui primi anni della Repubblica (Tranfaglia 2004) e un film (Segreti di
Stato del regista Paolo Benvenuti, accompagnato da un volume:
Baroni-Benvenuti 2003) ha riproposto il tema delle complicità chiamando
in causa vari soggetti, dai dirigenti della Democrazia cristiana alla X
MAS di Junio Valerio Borghese, ai servizi segreti americani, al
Vaticano, in un "gioco delle carte" non sempre convincente.
Sulla base di nuove acquisizioni documentali nel dicembre 2004 i
familiari delle vittime hanno chiesto la riapertura dell'inchiesta. Per
Portella, come del resto per le altre stragi che hanno insanguinato
l'Italia, la verità è ancora lontana.
Umberto Santino