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giovedì 11 agosto 2022

La "Trattativa" ci fu! ...Ma non fu reato



"la Trattativa ci fu..."
"...Ma non fu reato!"

Sono passati pochi giorni dalla pubblicazione delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo Trattativa Stato-mafiasentenza emessa dalla Corte d’Appello nel settembre 2021 e che aveva disposto, fra altri provvedimenti, l'assoluzione dell'ex senatore Marcello Dell'Utri (“per non aver commesso il fatto”), dell'ex capo del Ros, il generale Mario Mori, del generale Antonio Subranni e dell'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. 

Con la sentenza di settembre 2021 la Corte aveva ribaltato il giudizio in primo grado (maggio 2018) con .i  erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, e a 12 anni Dell'UtriMoriSubranni Cinà.

Ci permettiamo di scrivere che si rimane sconcertati dall'apprendere che lo Stato Italiano, per mezzo di alcuni suoi rappresentanti, possa "trattare con la mafia", con "pezzi" di essa, distinguendo fra una mafia stragista-cativa! ed una mafia "accettabile" con cui, conseguentemente, si potrebbe "scendere a patti".  Pertanto, Paolo Borsellino è stato il "rompicoglioni" che si indigna dinanzi ad uno Stato che, in quel preciso momento, tratta con assassini e complici di coloro che hanno appena ucciso Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Di Cilo, Vito Schifani. 

Quel che  pare gravissimo, osceno, è che in quelle motivazioni si introduca il principio della "sostenibilità" di una trattativa ( il principio del "fine che giustifica il mezzo "!) fra due entità che invece devono essere, e rimanere, in perfetta e indissolubile alterità l'una rispetto all'altra. Non solo: la "trattativa" fra  pezzi dello Stato con "pezzi" di "cosa nostra esplicitamente riconosce ed eleva le mafie a interlocutori possibili di uno Stato democraticoInaccettabile! Osceno!

Proviamo vergogna dinanzi alla memoria delle tante vittime innocenti, fedeli e integerrimi servitori dello Stato e della sua comunità, che hanno sacrificato la loro stessa vita in nome dello Stato italiano. 

Di seguito il contributo offerto dai magistrati Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato


Intervista di Giuseppe Lo Bianco a Nino Di Matteo, magistrato, membro del Consiglio Superiore della Magistratura -7 agosto 2022


La trattativa ci fu. Ma gli ufficiali dei carabinieri vengono assolti perché, contattando Ciancimino, “non vollero rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato per strappare al Governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma, semmai avrebbero voluto tali concessioni come male e come mezzo necessario per sventare una minaccia in atto’’. E fermare le stragi.

Dottor Di Matteo, lei che idea s’è fatto?

Anche questa corte ha ritenuto che la trattativa ci fu, fu iniziata da esponenti dello Stato, fu accettata da Riina e si svolse a partire dalle settimane successive alla strage di Capaci mentre era ancora caldo il sangue delle vittime. Con buona pace di quanti lo definiscono un teorema o fantomatica trattativa. C’è però un passaggio che mi lascia perplesso e mi suscita, anzi, preoccupazione.

Quale? 

Quello in cui si afferma che la trattativa era volta ad un fine di tutela dello Stato. Nella sentenza ormai definitiva della corte di assise di Firenze si affermava che quella iniziativa del Ros di contattare Vito Ciancimino avesse rafforzato in Riina il convincimento che la strategia di attacco alle istituzioni pagasse inducendolo a fare altre stragi. Mi chiedo con preoccupazione cosa penserebbero oggi di quelle parole le decine di esponenti delle istituzioni, non solo magistrati, ma agenti di polizia, carabinieri, anche politici che nel contrasto alle cosche mafiose per il rifiuto al dialogo e al compromesso hanno perso la vita.

Cosa teme in particolare?

Temo che la sentenza possa essere letta come una legittimazione a dialogare con la mafia, che faccia passare l’idea che con la mafia si può convivere. Spero che non abbia effetti, noi continueremo a pretendere che gli estorti denuncino i loro estorsori, io continuo a pensare che il comportamento di uno Stato che cerca Riina in nome di una ragione di stato non dichiarata con un atto del potere politico è inaccettabile in una democrazia. Ogni qualvolta lo Stato ha cercato il dialogo con la mafia ne ha accresciuto a dismisura un potere di ricatto notevolissimo. E c’è anche un altro passaggio che leggo con preoccupazione.

Prego.

L’opportunità, nella strategia del Ros, che prevalesse una fazione moderata su quella stragista. Questo è un passaggio preoccupante, sembra quasi distinguere una mafia con cui si può dialogare e un’altra da sconfiggere. Anche questo concetto rischia di sdoganare il principio che lo Stato può dialogare con la mafia. Sul Ros la Corte ha riconosciuto che la mancata perquisizione del covo di Riina il 15 gennaio 1993 è stato un segnale di incoraggiamento al dialogo per rafforzare il dialogo. È quello che abbiamo sostenuto noi in primo grado. Oggi la sentenza sottolinea la gravità evidente dell’omissione di un atto doveroso da parte di una struttura di polizia giudiziaria.

La sentenza conferma che tre governi – Amato, Ciampi e Berlusconi – vennero ricattati dalla mafia. Anche se nell’ultimo caso non c’è prova che fu il senatore Dell’Utri a veicolare la minaccia. Lei che ne pensa?

È un problema di valutazione della prova. Anche questa corte riconosce la valenza dei rapporti mafiosi di Dell’Utri anche dopo il ’92, lo assolve perché non ritiene sufficientemente provata la veicolazione a Berlusconi.

E cosa intende rispondere oggi a quanti negli anni hanno ridicolizzato la vostra inchiesta e il processo definendolo una ‘’boiata pazzesca’’?

Spero che storici e opinionisti abbiano oggi la correttezza di dire che la trattativa ci fu. Sono fiero di avere contribuito con gli altri colleghi a far venire fuori fatti e circostanze che sono stati ritenuti provati e che hanno attraversato la storia d’Italia nel periodo più buio dello stragismo mafioso.

 

Roberto Scarpinato: TRATTATIVA: PRESTIGIATORI DI SENTENZE E GATTOPARDI CHE TO- RNANO  (Fatto Quotidiano  9 agosto 2022)

"La Corte di Assise di Appello del processo “trattativa Stato-mafia” ha ritenuto provata la condotta materiale del reato contestato agli imputati Mori e De Donno, essendo state accertate le plurime condotte da essi poste in essere nel tempo in violazione di tutte le regole di legge, per ripristinare con la componente più “moderata” di Cosa Nostra, capeggiata da Provenzano, il patto di coesistenza pacifica con lo Stato che aveva caratterizzato tutta la storia della prima Repubblica e che i vertici mafiosi ritennero tradito con le condanne definitive del maxiprocesso. Tuttavia la Corte non ha ritenuto sussistente la componente soggettiva del reato, cioè il dolo, perché tali condotte sarebbero state motivate da intenti “solidaristici”, cioè dall’intento di evitare ulteriori stragi. Ciò sebbene le condotte degli imputati abbiano di fatto sortito (com’era ampiamente prevedibile) l’effetto opposto di rafforzare la determinazione della mafia di compiere ulteriori stragi, quali quelle del 1993, per concludere la trattativa. E ciò nonostante tali condotte abbiano di fatto consentito il prolungamento per tanti anni della latitanza e quindi dell’attività criminale di Provenzano. 

Nel condividere la preoccupazione di chi, come il collega Di Matteo, ha già osservato come tale motivazione si presti ad esser letta come una legittimazione e un viatico a dialogare con la mafia, a “conviverci” purché e affinché moderi la sua aggressività rendendosi silente, vorrei focalizzare un altro aspetto rilevante della sentenza: la parte sui possibili motivi che determinarono Riina ad anticipare e accelerare l’uccisione di Borsellino.

Nell’affrontare tale delicatissimo tema, inspiegabilmente nelle 2971 pagine della motivazione, la Corte non spende un solo rigo sulla sottrazione dell’agenda rossa da uomini degli apparati istituzionali; sulla forzata induzione di Scarantino a rendere false dichiarazioni; sulla presenza, rivelata da Spatuzza, di un soggetto esterno a Cosa Nostra nel momento cruciale del caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126; sugli “infiltrati della Polizia” dei quali Franca Castellese il 14 dicembre ‘93 implorò il marito Mario Santo Di Matteo di non fare menzione ai magistrati, dopo che a seguito della sua collaborazione con la giustizia era stato rapito il loro figlio Giuseppe; sulle accertate e vive preoccupazioni di Borsellino nei confronti degli uomini del Sisde; sull’omicidio ordinato da Riina negli stessi giorni della strage del capomafia di Alcamo Vicenzo Milazzo, che si era rifiutato di unirsi alla strategia stragista, declinando per tre volte le sollecitazioni ricevute da uomini dei servizi segreti con cui si era incontrato alla presenza di un colletto bianco che è stato identificato.

È evidente che facendo sparire tutto questo e molto altro dal contesto argomentativo, viene preclusa in radice qualsiasi possibilità di ricostruire i motivi dell’accelerazione della strage che chiamano in causa apparati deviati dello Stato; e si elimina nel lettore la consapevolezza di elementi essenziali che contraddicono la tesi a cui perviene così quasi per default la Corte in esito a questo gioco di prestidigitazione probatoria per sottrazione. Tesi che può riassumersi nei seguenti termini: dovendosi escludere che l’accelerazione fu determinata dal pericolo che Borsellino ostacolasse il buon esito delle trattativa, resta come unica residuale alternativa l’interesse di Borsellino sul tema mafia-appalti. 

Nel ridurre la vicenda stragista di via D’Amelio nel letto di Procuste di contingenti interessi economici di Riina e di qualche colletto bianco, la Corte disattende così implicitamente possibili complicità di esponenti dello Stato. I gravissimi fatti sopra accennati, dei quali la Corte non fa alcuna menzione, e i plurimi e complessi interventi depistatori di vari esponenti di apparati statali sino a epoca molto recente sono assolutamente incompatibili con l’ipotesi riduzionista prospettata dalla Corte. E attestano che vi erano ben altri scheletri che rischiavano di uscire dall’armadio se Borsellino fosse rimasto in vita e avesse potuto trasfondere in atti giudiziari l’esito delle sue indagini sui responsabili e le complesse causali della strage di Capaci. 

Scheletri che spiegano perché gli interventi di soggetti esterni attraversino ininterrottamente tutta la sequenza stragista, da Capaci nel maggio ‘92 alle stragi del ‘93 nel continente, come emerge da una pluralità di elementi probatori e come relazionò la Dia già nel ‘93 con un’informativa in cui si comunicava che: dietro le stragi si muoveva una “aggregazione orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti dotate di “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”. Scheletri che spiegano anche il perfetto sincronismo operativo tra i mafiosi che fanno esplodere l’autobomba e l’immediata apparizione sulla scena di appartenenti agli apparati istituzionali che, grazie alla loro insospettabilità, possono far sparire l’agenda rossa completando l’operaNon bastava uccidere Borsellino: se la sua agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, lo scopo della sua repentina eliminazione sarebbe stato frustrato. Ed è evidente che l’agenda rossa non fu sottratta per tutelare i mafiosi esecutori della strage, ma i loro compici eccellenti.

Né la Corte si chiede perché proprio la Dia, l’organismo di polizia interforze specializzato in materia di mafia, creato su impulso decisivo di Falcone e diretto da De Gennaro amico di Falcone e Borsellino che con lui si confidavano, fu inopinatamente esclusa dalla Procura di Caltanissetta dalle indagini sulla strage, privilegiando invece con un colpo di mano il Sisde di Bruno Contrada e Arnaldo La Barbera, altro soggetto collegato al Sisde, con i noti esiti che portavano in una direzione completamente diversa. 

Bisognerebbe anche chiedersi perché alcuni magistrati che più si sono spesi per dimostrare la compartecipazione di soggetti esterni alle stragi del 1992-’93 siano stati accomunati dallo stesso destino: ostracizzati ed emarginati in vari modi, taluni persino sottoposti a inchieste disciplinari e financo penali, altri nel mirino di prolungate campagne di delegittimazione. 

Vari indizi inducono a ritenere che purtroppo le stragi del 1992-’93 non sono eventi conclusi, ma sono ancora tra noi, perché accanto a un dibattito pubblico e a una dialettica giudiziaria in cui continuano democraticamente a confrontarsi opinioni diverse, non sono mai  cessate dietro le quinte occulte manovre per chiudere definitivamente questa spinosa partita, riducendo una volta per tutte le responsabilità e le causali esclusivamente a personaggi come Riina e sodali, elevati a icone totalizzanti del male di mafia. 

Non mi sembra – malgrado l’impegno profuso da taluni magistrati – che esistano le condizioni sociopolitiche per un salto di qualità complessivo delle indagini che consenta di pervenire a una verità giudiziaria completa. È in corso una inquietante accelerazione del processo di normalizzazione e di restaurazione culturale di cui si colgono tanti segnali.

Nella patria del Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato di convivenza tra Stato e mafia, di segrete transazioni tra Stato legalitario e Stato occulto, di rimozioni e amnistia permanente tramite amnesia collettiva torna a essere la cifra del presente e del futuro. Ritornano in campo da protagonisti della politica personaggi condannati per collusione con la mafia; si celebra nelle aule del Senato la memoria di vertici dei servizi segreti – come il generale Gianadelio Maletti – condannati per depistaggio su Piazza Fontanasi normalizza la cultura dell’omertà giustificando come motivazione eticamente condivisibile la scelta dei mafiosi stragisti irriducibili di non collaborare con lo Stato, autorizzando con la riforma dell’ergastolo ostativo la loro uscita dal carcere anche in assenza di collaborazione, solo a condizione che provino di aver deposto le armi ed essersi dissociati definitivamente dalla mafia; si approvano a ripetizione leggi che riportano indietro l’orologio della storia ai tempi del primo 900, ripristinando il trionfo della gerarchia nella magistratura. Leggi che creano una magistratura alta e una bassa ed esaltano la figura di dirigenti soprastanti con il compito di garantire che i magistrati sottordinati smaltiscano rapidamente il più elevato numero di processetti e non sprechino risorse e tempo per indagini complesse ad alto rischio e di esito incerto, come quelle sulla criminalità dei colletti bianchi e del potere. Oggi come ieri, in un Paese segnato sin dalla nascita della Repubblica da una sequenza ininterrotta di stragi e omicidi eccellenti senza uguali in Europa, da patti occulti con la mafia e dalla corruzione sistemica – tutte declinazioni della criminalità di settori portanti delle classi dirigenti -, la "questione giustizia" resta inestricabilmente connessa alla questione democratica e dello Stato.

Quale Stato? 

Quello dei carabinieri che trattarono con la mafia o quello di Falcone e Borsellino? Lo Stato che ha depistato tante indagini sulle stragi da Portella della Ginestra, a Peteano, a Milano, a Brescia, a Bologna, sino a quelle del 1992-’93, o lo Stato in cui si riconosce quella parte d’Italia che non vuole rassegnarsi a convivere con i poteri criminali

Questo è stato in passato e resta per il futuro il nodo politico cruciale del nostro Paese e una delle incognite più inquietanti del futuro della nostra democrazia."

 


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