Rosario Livatino,
"Il giudice ragazzino" secondo una definizione coniata da Francesco
Cossiga, fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21
settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta
mentre si recava in
Tribunale, senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto.
Come Sostituto Procuratore della
Repubblica al Tribunale di Agrigento, Rosario Livatino si
occupò di delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche, nel
1985, di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la
"Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad
altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato, Calogero Mannino accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo
elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, nel biennio 1980-1981. Calogero Mannino verrà poi arrestato nel
1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello
nel 2008, per mancanza di prove.
Dal 21 agosto
'89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di
Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di
prevenzione.
Paolo Borsellino ricorderà in una cerimonia pubblica Rosario Livatino. L'intervista televisiva che il giudice concederà, sarà l'occasione
per richiamare
l'attenzione dell'opinione pubblica sul problema della mafia ma anche per muovere un duro attacco ai politici
che avevano preso di mira i pm anti-mafia senza curarsi di risolvere i
problemi ordinari e strutturali della giustizia in Sicilia."I
giudici continueranno a lavorare e a sovraesporsi ed in alcuni casi a
fare la fine di Rosario Livatino, come tanti altri. I politici
appariranno ai funerali proclamando unità d'intenti per risolvere questo
problema e dopo pochi mesi saremo sempre punto e a capo".Le parole di
Paolo Borsellino, se valevano in quei giorni del 1990 , potrebbero avere
valore di denuncia anche ai giorni nostri, salvo che -nei giorni che
viviamo- le mafie non hanno più bisogno di uccidere "vittime
eccellenti".
Tuttavia, in questi decenni spesso la politica è stata invece attenta e metodica nel depotenziare strumenti di indagine e risorse a disposizione di magistrati ed inquirenti. Più volte, lo stesso don Lugi Ciotti ha dovuto denunciare in questi anni la inefficacia di leggi, norme e provvedimenti che risultano poco efficaci, se non inutili, in quanto frutto di mediazioni al ribasso, frutto di "accordi "sottobanco" tra i partiti".
La vita e il lavoro di Rosario Livatino ( fonte LINKIESTA)
Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 da
padre avvocato e madre casalinga. Dopo il liceo classico si era iscritto
alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. A 22 anni era arrivata la
laurea cum laude, poi il servizio come vicedirettore in prova
all’Ufficio del Registro di Agrigento, per due anni tra il ‘77 e il ‘78.
Infine l’ingresso in magistratura nel tribunale di Caltanissetta. Ad
Agrigento era approdato nel ‘79, prima come sostituto procuratore e poi,
dieci anni dopo, come giudice a latere o sostituto procuratore della
Repubblica.
Nella sua carriera si è occupato di criminalità e ha indagato la presenza delle mafie e della corruzione nell’Agrigentino. È famoso il suo interrogatorio all’allora ministro Calogero Mannino, accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, Antonio Vella, nel biennio 1980-1981. Per la cronaca, Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
Il “giudice ragazzino”, appellativo con cui Livatino è spesso ricordato, si deve al sociologo Nando dalla Chiesa che gli ha dedicato un libro. «A 28 anni, molto giovane, Livatino si era occupato Inchiesta sui Cavalieri del Lavoro di Catania – spiega l’autore –, un gruppo di quattro imprenditori potentissimi nell’edilizia e non solo, che allora sembravano costituire il potere economico più forte nel Sud. Quando ho sentito quello che Cossiga aveva detto di quei giovani giudici siciliani, cioè che "non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un’indagine complessa", e ho ripensato a quello che Livatino aveva avuto il coraggio di fare, ho deciso di titolare così il libro. Ho pensato che giovani così sono necessari alla magistratura, e che il capo del Csm avrebbe dovuto difenderli anziché attaccarli».
La morte del “giudice ragazzino” fu attribuita a un conflitto di mafia: la Stidda l’avrebbe ucciso per punire un magistrato severo e «per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra». Nel 2001 una sentenza della Cassazione condanna all’ergastolo i quattro sicari – Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro –, incastrati dalla testimonianza di un uomo che passava sulla strada il giorno dell’esecuzione, Pietro Nava.
Le vere cause della sua morte, per altri, sono invece da attribuirsi alle sue indagini sui legami tra mafia e politica. Di certo la politica non l’ha aiutato: «Non ci sono stati quegli interventi che mettono la giustizia in condizioni di lavorare», dirà Borsellino a proposito della sua morte.
Nella sua carriera si è occupato di criminalità e ha indagato la presenza delle mafie e della corruzione nell’Agrigentino. È famoso il suo interrogatorio all’allora ministro Calogero Mannino, accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, Antonio Vella, nel biennio 1980-1981. Per la cronaca, Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
Il “giudice ragazzino”, appellativo con cui Livatino è spesso ricordato, si deve al sociologo Nando dalla Chiesa che gli ha dedicato un libro. «A 28 anni, molto giovane, Livatino si era occupato Inchiesta sui Cavalieri del Lavoro di Catania – spiega l’autore –, un gruppo di quattro imprenditori potentissimi nell’edilizia e non solo, che allora sembravano costituire il potere economico più forte nel Sud. Quando ho sentito quello che Cossiga aveva detto di quei giovani giudici siciliani, cioè che "non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un’indagine complessa", e ho ripensato a quello che Livatino aveva avuto il coraggio di fare, ho deciso di titolare così il libro. Ho pensato che giovani così sono necessari alla magistratura, e che il capo del Csm avrebbe dovuto difenderli anziché attaccarli».
La morte del “giudice ragazzino” fu attribuita a un conflitto di mafia: la Stidda l’avrebbe ucciso per punire un magistrato severo e «per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra». Nel 2001 una sentenza della Cassazione condanna all’ergastolo i quattro sicari – Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro –, incastrati dalla testimonianza di un uomo che passava sulla strada il giorno dell’esecuzione, Pietro Nava.
Le vere cause della sua morte, per altri, sono invece da attribuirsi alle sue indagini sui legami tra mafia e politica. Di certo la politica non l’ha aiutato: «Non ci sono stati quegli interventi che mettono la giustizia in condizioni di lavorare», dirà Borsellino a proposito della sua morte.
Uno
dei primi ad accorrere sulla scena del delitto fu Paolo Borsellino, che
rimase molto colpito dall'uccisione del "giudice ragazzino". Così
ricorderà quella uccisione: «Lo hanno braccato come un coniglio, povero
Rosario, (...)».
La vita, la morte e la memoria di Rosario
Livatino sono l'occasione per sottolineare la responsabilità civile a cui noi
cittadini siamo chiamati: solo grazie alla testimonianza Pietro Ivano
Nava, il
tranquillo rappresentante di commercio che assistette casualmente
all'omicidio, è stato possibile rendere giustizia a Rosario Livatino,
individuando l'esecutore e i mandanti dell'assassinio del "giudice
ragazzino". Tutti
condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di
giudizio, con pene ridotte per i "collaboranti".
La storia di Pietro Ivano Nava, il testimone dell'omicidio di Rosario Livatino.
"COSI' PAGA CHI AIUTA LO STATO".
fonte La Repubblica 08 aprile 1992
Di Giuseppe D’Avanzo
(…) Era un venerdì caldo e
senza afa. Erano le nove del mattino. Pietro Ivano Nava, agente di
commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a quattro chilometri da
Agrigento.
Vide sul lato della strada una Ford Fiesta
rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un ragazzotto
con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta scavalcando il
guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una pistola.
Insegue Rosario Livatino. Il "giudice ragazzino" di Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando
la fuga in un vallone di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo
braccherà come una bestia. Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto,
sparerà ancora - quattro volte - per finirlo. Pietro
Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene l' assassino in
faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: "Ho visto l' assassino. Se
lo trovate, saprei riconoscerlo". E lo ha riconosciuto davvero
Domenico Pace, l' assassino.
"Non mi sento un eroe, non mi
sento una mosca bianca. Non sono né l' uno né l' altro. Sono un cittadino che
crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato
non è un' entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato.
Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le
nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli
occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo
modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi
tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono...". Pietro
Ivano Nava è oggi un fantasma. Ha
lasciato la casa di Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto
per dieci anni. E' stato cancellato dai registri dell' anagrafe, dall' elenco
telefonico, dal ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio
della periferia romana, si è rifugiato su un' isola del golfo di Napoli e
ancora in un paesino dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda.
Per sfuggire alla
vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo.
Dice: "La mia
vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari
come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia.
Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in
fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del
tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo
permettono.
Avevo un lavoro. Ero il
rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della '
Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche
un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe
diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello
Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli
Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società.
Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi.
Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro.
Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia
famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo.
Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto
ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante
lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A
volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta
differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". ( N.d.r.:
all'epoca dell'articolo era ancora da venire la Legge 41/2001 che introduce
la figura del "testimone di giustizia" nella giurisdizione
italiana)
E il futuro? Pietro Ivano
Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose,
gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora
voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia
normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio
passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già
letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare
in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva.
Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".
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