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lunedì 21 settembre 2015

Il dovere della Memoria: Rosario Livatino, il "giudice ragazzino".

ROSARIO LIVATINO: "ALLA FINE DELLA VITA , QUANDO MORIREMO, NESSUNO CI  VERRA' A CHIEDERE SE SIAMO STATI CREDENTI, MA CREDIBILI "
Rosario Livatino, "Il giudice ragazzino" secondo una definizione coniata da Francesco Cossiga,  fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre si recava in Tribunale, senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto.
Come Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale di Agrigento, Rosario Livatino si occupò di delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche, nel 1985, di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato, Calogero Mannino accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, nel biennio 1980-1981. Calogero Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
 Dal 21 agosto '89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione.

Paolo Borsellino ricorderà in una cerimonia pubblica Rosario Livatino.  L'intervista televisiva che il giudice concederà, sarà l'occasione per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sul problema della mafia ma anche per muovere un duro attacco ai politici che avevano preso di mira i pm anti-mafia senza curarsi di risolvere i problemi ordinari e strutturali della giustizia in Sicilia."I giudici continueranno a lavorare e a sovraesporsi ed in alcuni casi a fare la fine di Rosario Livatino, come tanti altri. I politici appariranno ai funerali proclamando unità d'intenti per risolvere questo problema e dopo pochi mesi saremo sempre punto e a capo".Le parole di Paolo Borsellino, se valevano in quei giorni del 1990 , potrebbero avere valore di denuncia anche ai giorni nostri, salvo che -nei giorni che viviamo- le mafie non hanno più bisogno di uccidere "vittime eccellenti".
 


Tuttavia, in questi decenni spesso la politica è stata invece attenta e metodica nel depotenziare strumenti di indagine e risorse a disposizione di magistrati ed inquirenti. Più volte, lo stesso don Lugi Ciotti ha dovuto denunciare in questi anni la inefficacia di leggi, norme e provvedimenti che risultano poco efficaci, se non inutili, in quanto frutto di mediazioni al ribasso,  frutto di "accordi "sottobanco" tra i partiti".

La vita e il lavoro di Rosario Livatino ( fonte LINKIESTA)
Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 da padre avvocato e madre casalinga. Dopo il liceo classico si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. A 22 anni era arrivata la laurea cum laude, poi il servizio come vicedirettore in prova all’Ufficio del Registro di Agrigento, per due anni tra il ‘77 e il ‘78. Infine l’ingresso in magistratura nel tribunale di Caltanissetta. Ad Agrigento era approdato nel ‘79, prima come sostituto procuratore e poi, dieci anni dopo, come giudice a latere o sostituto procuratore della Repubblica.
Nella sua carriera si è occupato di criminalità e ha indagato la presenza delle mafie e della corruzione nell’Agrigentino. È famoso il suo interrogatorio all’allora ministro Calogero Mannino, accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, Antonio Vella, nel biennio 1980-1981. Per la cronaca, Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
Il “giudice ragazzino”, appellativo con cui Livatino è spesso ricordato, si deve al sociologo Nando dalla Chiesa che gli ha dedicato un libro. «A 28 anni, molto giovane, Livatino si era occupato Inchiesta sui Cavalieri del Lavoro di Catania – spiega l’autore –, un gruppo di quattro imprenditori potentissimi nell’edilizia e non solo, che allora sembravano costituire il potere economico più forte nel Sud. Quando ho sentito quello che Cossiga aveva detto di quei giovani giudici siciliani, cioè che "non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un’indagine complessa", e ho ripensato a quello che Livatino aveva avuto il coraggio di fare, ho deciso di titolare così il libro. Ho pensato che giovani così sono necessari alla magistratura, e che il capo del Csm avrebbe dovuto difenderli anziché attaccarli».
La morte del “giudice ragazzino” fu attribuita a un conflitto di mafia: la Stidda l’avrebbe ucciso per punire un magistrato severo e «per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra». Nel 2001 una sentenza della Cassazione condanna all’ergastolo i quattro sicari –  Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro –, incastrati dalla testimonianza di un uomo che passava sulla strada il giorno dell’esecuzione, Pietro Nava.
Le vere cause della sua morte, per altri, sono invece da attribuirsi alle sue indagini sui legami tra mafia e politica. Di certo la politica non l’ha aiutato: «Non ci sono stati quegli interventi che mettono la giustizia in condizioni di lavorare», dirà Borsellino a proposito della sua morte.


Uno dei primi ad accorrere sulla scena del delitto fu Paolo Borsellino, che rimase molto colpito dall'uccisione del "giudice ragazzino". Così ricorderà quella uccisione: «Lo hanno braccato come un coniglio, povero Rosario, (...)».





La vita, la morte e la memoria di Rosario Livatino sono l'occasione per sottolineare la responsabilità civile a cui noi cittadini siamo chiamati: solo grazie alla testimonianza Pietro Ivano Nava, il tranquillo rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, è stato possibile rendere giustizia a Rosario Livatino, individuando l'esecutore e i mandanti dell'assassinio del "giudice ragazzino"Tutti condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di giudizio,  con pene ridotte per i "collaboranti".

La storia di Pietro Ivano Nava, il testimone dell'omicidio di Rosario Livatino.  

"COSI' PAGA CHI AIUTA LO STATO".


fonte La Repubblica 08 aprile 1992 

Di Giuseppe D’Avanzo
(…) Era un venerdì caldo e senza afa. Erano le nove del mattino. Pietro Ivano Nava, agente di commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a quattro chilometri da Agrigento.
Vide sul lato della strada una Ford Fiesta rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un ragazzotto con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una pistola. Insegue Rosario Livatino. Il "giudice ragazzino" di Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando la fuga in un vallone di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo braccherà come una bestia. Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto, sparerà ancora - quattro volte - per finirlo. Pietro Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene l' assassino in faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: "Ho visto l' assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo". E lo ha riconosciuto davvero Domenico Pace, l' assassino.
"Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l' uno né l' altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un' entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono...". Pietro Ivano Nava è oggi un fantasmaHa lasciato la casa di Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto per dieci anni. E' stato cancellato dai registri dell' anagrafe, dall' elenco telefonico, dal ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia romana, si è rifugiato su un' isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda. 
Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo
Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono. 
Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". ( N.d.r.: all'epoca dell'articolo era ancora da venire la Legge 41/2001 che introduce  la figura del "testimone di giustizia" nella giurisdizione italiana)
E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".

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