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martedì 29 settembre 2015

"Lampedusa 3 ottobre 2013 - i giorni della tragedia"

Invitiamo alla proiezione del documentario "Lampedusa 3 ottobre 2013 - i giorni della tragedia" che si terrà anche a Pinerolo, sabato 3 ottobre 2015 allo "Stranamore", via bignone n. 89.  
Papa Francesco lo aveva urlato: "...una sola parola: Vergogna" 
In quell'occasione così avevamo scritto: "(...) quando indosseranno le facce "pittate a lutto"- abbiano il coraggio di parlare di bambini, ragazzi, donne e uomini!...non di clandestini! Parlate  i bambini, ragazzi, donne e uomini che raccolgono le loro speranze per deporle su una barca che viaggia nel buio delle coscienze dell'occidente". (leggi qui)
Vergogna!

la locandina dell'evento
Il 3 ottobre del 2013, a mezzo miglio dalle coste di Lampedusa vicinissimo al porto, una barca naufragava con a bordo 540 persone circa, la maggior parte di nazionalità eritrea, provocando 366 morti accertati e circa 20 dispersi presunti. Un documentario nato nei giorni della tragedia. I racconti fatti dai sopravvissuti e dai soccorritori nell'immediatezza della tragedia sono inquietanti: parlano di due imbarcazioni che si sono dappprima avvicinate per poi allontanarsi senza prestare soccorso; di orari discordanti con quelli ufficiali per quanto concerne la richiesta d’aiuto fatta dall’imbarcazione Gamar."
La proiezione del documentario "Lampedusa 3 ottobre 2013 i giorni della tragedia" viene organizzata in varie parti d’Italia per chiedere di aprire un’indagine per mancato soccorso sulla strage del 03/10/2013 e riflettere profondamente sulle cause delle migrazioni e sulla gestione di quello che ha tutte le connotazioni di un dramma epocale.


 

mercoledì 23 settembre 2015

Giancarlo Siani: "l'eresia" di voler capire, conoscere, andare oltre l'apparenza.

Quel 23 settembre 1985 era un lunedì. Giancarlo Siani aveva finito di lavorare prima del solito. Doveva andare a un concerto. La fidanzata lo aspettava...La sera in cui fu ammazzato, Giancarlo Siani tornava a casa prendendo il vento di faccia nella sua Citroen Méhari verde bottiglia. Aveva compiuto 26 anni da quattro giorni. Ed era felice.

Quest'anno , per fare Memoria, scegliamo l'articolo sritto da Francesca Mondin su Antimafiaduemila perchè l'articolo termina rivelando il senso del fare memoria : "
"(...) Si cerca in tutti i modi di imbavagliare la libertà di stampa, (ancora oggi!) ultimo caso il disegno di legge dove si vuole limitare la pubblicazione delle intercettazioni.(...) Ora spetta ad ogni singolo cittadino raccogliere con responsabilità ed orgoglio l’eredità che ci ha lasciato questo ragazzo di appena ventisei anni, l’entusiasmo per capire, frugare, andare oltre l’apparenza e conoscere cosa succede attorno a noi."

Fonte : Antimafiaduemila

Giancarlo Siani, l’entusiasmo di cercare e capire


siani giancarlo web5Video
di Francesca Mondin

E’ il 23 settembre del 1985, Giancarlo Siani, giornalista di Torre Annunziata, sta tornando a casa, cinque giorni prima aveva compiuto gli anni, ventisei. Davanti ha una vita intera, ambizioni, progetti, sogni. Poco più in là due uomini aspettano. E’ quasi arrivato, parcheggia l’auto. I due individui sono armati. All’improvviso una raffica di proiettili lo colpisce alla testa ed in un soffio il suo futuro viene strappato via.
Non era un caporedattore o un direttore di un giornale importante, quel ragazzo era un semplice cronista d’assalto che stava ancora facendo la così detta “gavetta”. Uno dei tanti precari. “Il Mattino”, giornale per il quale aveva iniziato a scrivere, ancora non lo aveva nemmeno assunto.
Giancarlo Siani era però uno dei pochi che faceva i nomi dei maggiori boss di Camorra, I Nuvoletta, i Gionta, i Giuliano.
Aveva lavorato prima per il periodico “Osservatorio sulla camorra”, rivista di carattere socio-informativo ed era convinto che essere giornalista significasse raccontare. Indagare, scoprire cosa si poteva nascondere sotto la semplice cronaca. Senza censura e mettendo da parte la paura. Girava per Torre Annunziata in cerca di fatti, sulla sua Méhari, una macchina verde, poco più di un carretto a motore, senza nemmeno la protezione di un tetto o un finestrino.
All’epoca la Camorra, come le altre organizzazioni mafiose, si stava modernizzando e fiutava la possibilità di arricchirsi e crescere. I Nuvoletta si erano avvicinati ai corleonesi di Totò Riina. Intanto la guerra di Camorra aveva lasciato già decine di morti alle spalle. Di tutto quello che vede e capisce, Siani non tace nulla e scrive. Denuncia con le sue indagini l’espansione dell’impero del boss Valentino Gionta. Racconta del fiume di soldi, che facevano gola alla malavita, arrivati in Campania per la ricostruzione dell’Irpina dopo il terremoto dell’80. Svela con i suoi articoli l’organizzazione, il sistema e le logiche mafiose, raccontando degli intrecci e rapporti con l’economia e la politica. In altre parole offre all’opinione pubblica tanti tasselli di un puzzle che uniti permettono al cittadino di comprendere logiche losche che governano allora come oggi alcuni ambienti politico-imprenditoriali.

Trent’anni e una verità parziale
Ci sono voluti otto anni di processi, per arrivare ad una prima verità giudiziaria. La sentenza di Cassazione dice che a decretare la morte del giovane giornalista sarebbe stato il boss Lorenzo Nuvoletta in seguito ad un articolo del 10 giugno 1985, dove Siani aveva raccontato come il capomafia, amico e referente in Campania di Totò Riina, aveva tradito l’alleato Valentino Gionta, ‘vendendolo’ ai carabinieri.
Dopo trent’anni però la verità sull’omicidio di Giancarlo Siani è ancora incompleta.
A riportare a galla il caso è stato un libro uscito lo scorso anno ''Il caso non è chiuso” (ed. Castelvecchi), frutto di un’inchiesta giornalistica di Roberto Paolo, caporedattore del quotidiano "Roma". Secondo le prove e le testimonianze inedite raccolte dall’autore, a premere il grilletto contro Siani non sarebbero stati Armando Del Core e Ciro Cappuccio, gli uomini attualmente in carcere, condannati all’ergastolo per l’omicidio Siani, ma altri due ragazzi, entrambi deceduti, che lavoravano per i Giuliano. Così come a pianificare l’attentato non sarebbe stato solo il clan dei Nuvoletta ma anche quello Gionta e Giuliano, ognuno per un proprio interesse. Una pista, in realtà, già seguita nelle prime indagini ma poi abbandonata. Siani, secondo quanto raccontato nel libro, andava fatto fuori perchè stava indagando sulla gestione dell'affare delle cooperative di ex detenuti. Business sul quale la cosca napoletana e quella di Torre Annunziata lucravano ingenti somme di denaro.
I pm della Dda di Napoli, Henry John Woodcock e Enrica Parascandalo che stanno conducendo nuove indagini nel massimo riserbo, non hanno ancora rilasciato informazioni sullo stato dell’inchiesta.
Secondo il giornalista Roberto Paolo, la nuova verità che potrebbe emergere dalle indagini in corso potrebbe completare quella lacunosa raggiunta con la prima sentenza, costruita con molta fatica e impedimenti.

L’eredita di Giancarlo Siani
Ad oggi una cosa è certa, Giancarlo Siani aveva, per citare Pippo Fava (altro martire giornalista ucciso dalla mafia) un concetto etico del giornalismo. Cosa che in terra di Camorra non era accettato. Infatti è stato ucciso perché era solo, non aveva protezioni di nessun tipo, l’attivismo antimafia era agli albori e si faceva scudo di questi rari esempi di coraggio. Nessuno parlava di Camorra, per i media l’argomento mafia era un tabù.
Oggi la situazione è senza dubbio diversa, lo dimostra il fatto che in questi giorni per il trentennale ci sono stati molti eventi per ricordare il giovane cronista di Torre Annunziata e rispetto all’epoca ci sono molte organizzazioni e associazioni antimafia.
Inoltre qualche raro programma televisivo ogni tanto accenna un’inchieste sul malaffare. Ma l’attenzione nei confronti di chi, come Giancarlo Siani allora, è oggi in prima linea sulle terre di confine è ancora molto bassa. Ci sono moltissimi giornalisti, magistrati e cittadini che ricevono minacce e intimidazioni di ogni tipo, c’è ancora troppa omertà e indifferenza. L’informazione è in balia dello share. Basti pensare all’ultimo show di Vespa a "Porta a Porta" con i Casamonica. 
Si cerca in tutti i modi di imbavagliare la libertà di stampa, ultimo caso il disegno di legge dove si vuole limitare la pubblicazione delle intercettazioni. La televisione pullula di talkshow, che spesso si trasformano in spettacoli da Colosseo dove l’insulto è la parola d’ordine e allo spettatore si ritrova a ridere, piangere o criticare, senza in fondo aver capito veramente l’obiettivo del confronto.
Ora spetta ad ogni singolo cittadino raccogliere con responsabilità ed orgoglio l’eredità che ci ha lasciato questo ragazzo di appena ventisei anni, l’entusiasmo per capire, frugare, andare oltre l’apparenza e conoscere cosa succede attorno a noi.

martedì 22 settembre 2015

Maurizio Pallante "Il movimento della Decrescita Felice", le esperienze, il Territorio

Anche noi del presidio LIBERA "Rita Atria" invitiamo a riflettere su temi che, lungi dall'essere esercizi di astratta filo-sociologia, riguardano la conduzione, la pratica quotidiana, delle nostre esisitenze. Quanto leggiamo sulla locandina di presentazione dell'incontro va esattamente nella direzione delle battaglie culturali che, gruppi e associazioni differenti, qualche movimento politico, combattono sul tema generale della difesa dei "beni comuni". L'incontro con Maurizio Pallante si terrà giocedì 24 settembre 2015 , a Pinerolo, presso lo "Stranamore", in via Bignone n. 89 
Vi invitiamo a partecipare come "cittadine e cittadini responsabili", per conoscere, partecipare, contribuire -con esperienze e 'impegno etico- al bene lungimirante della nostra comunità
" E’ giunto il momento di costruire un cambio di paradigma culturale. Bisogna costruire luoghi fisici ove il mondo e le comunità dell’auto-produzione e della sostenibilità possano incontrarsi quando lo desiderano. Bisogna realizzare spazi per favorire il dialogo e l’incontro volto a realizzare imprese e impieghi utili per rigenerare i nostri stessi luoghi, e consumare beni e merci secondo regole etiche che riconoscono il valore della sovranità alimentare. Bisogna realizzare una politica economica finalizzata a consolidare l’autosufficienza e la resilienza delle realtà locali costituiscono uno straordinario punto di forza. Contestualmente, occorre mettere in atto politiche e pratiche concrete fondate su uno dei principi della Cosituzione italiana, laddove (art. 9) si pone la tutela del Paesaggio come elemento cardine della Nazione. Occorre quindi fermare l’espansione urbanistica dei territori ed avviare una politica finalizzata a ripristinare la bellezza dei paesaggi, riducendo la quantità e migliorando la qualità degli edifici esistenti.
A tal fine non si potrà prescindere dall’avviare progressivi processi di decostruzione delle aree urbane più degradate e la loro rinaturalizzazione, sull’esempio di quanto sta avvenendo a Detroit. Al contempo si dovrà procedere alla riqualificazione degli edifici esistenti, in particolare dal punto di vista energetico, non soltanto perché ciò consente di ridurre nella maniera più significativa le emissioni di anidride carbonica, ma anche perché la riduzione delle dispersioni termiche non comporta peggioramenti delle condizioni di benessere e ripaga i suoi costi d’investimento con la riduzione dei costi di gestione."
Questi alcuni dei temi del dibattito. 
Vi invitiamo a partecipare come "cittadine e cittadini responsabili"

Il Movimento per la Decrescita Felice (MDF) è stato fondato il 15 dicembre 2007 dopo un anno di confronti e discussioni tra le persone e i gruppi che si riconoscevano nella teoria delineata nel libro “La decrescita felice”, pubblicato nel 2005 da Maurizio Pallante. Il movimento si struttura in circoli territoriali diffusi sul territorio nazionale e in gruppi di lavoro tematici. Ciò che lo contraddistingue è un approccio “pragmatico” al tema della decrescita.
Il Movimento per la Decrescita Felice vuole essere parte della risposta alla domanda che sorge subito dopo aver letto un qualsivoglia libro sulla decrescita: ”Bello in teoria, ma io, nel mio piccolo, che posso fare?” Da soli si può far poco ma insieme le cose cambiano.
Vorrebbe, quindi, essere una sorta di catalizzatore in grado non solo di diffondere un pensiero, ma di fornire la possibilità, a chi vi si riconosce, di incontrarsi, di discuterne, di elaborarlo insieme e sopratutto di metterlo in pratica.
Maurizio Pallante (Roma, 1947), laureato in lettere, principalmente attivo come saggista, è presidente dell’Associazione Movimento per la Decrescita Felice. Da molti anni si occupa di politica energetica e tecnologie ambientali ed ha svolto lavori di consulenza per il Ministero dell’Ambiente riguardo all’efficienza energetica.
È il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice e ne dirige le edizioni.
Collabora con Caterpillar, la nota trasmissione radiofonica di RaiDue, per la festa della Decrescita felice, di cui è il principale ispiratore. È membro del comitato scientifico della campagna sul risparmio energetico “M’illumino di meno” e della testata online di informazione ecologica “Terranauta”.

lunedì 21 settembre 2015

Il dovere della Memoria: Rosario Livatino, il "giudice ragazzino".

ROSARIO LIVATINO: "ALLA FINE DELLA VITA , QUANDO MORIREMO, NESSUNO CI  VERRA' A CHIEDERE SE SIAMO STATI CREDENTI, MA CREDIBILI "
Rosario Livatino, "Il giudice ragazzino" secondo una definizione coniata da Francesco Cossiga,  fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre si recava in Tribunale, senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto.
Come Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale di Agrigento, Rosario Livatino si occupò di delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche, nel 1985, di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato, Calogero Mannino accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, nel biennio 1980-1981. Calogero Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
 Dal 21 agosto '89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione.

Paolo Borsellino ricorderà in una cerimonia pubblica Rosario Livatino.  L'intervista televisiva che il giudice concederà, sarà l'occasione per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sul problema della mafia ma anche per muovere un duro attacco ai politici che avevano preso di mira i pm anti-mafia senza curarsi di risolvere i problemi ordinari e strutturali della giustizia in Sicilia."I giudici continueranno a lavorare e a sovraesporsi ed in alcuni casi a fare la fine di Rosario Livatino, come tanti altri. I politici appariranno ai funerali proclamando unità d'intenti per risolvere questo problema e dopo pochi mesi saremo sempre punto e a capo".Le parole di Paolo Borsellino, se valevano in quei giorni del 1990 , potrebbero avere valore di denuncia anche ai giorni nostri, salvo che -nei giorni che viviamo- le mafie non hanno più bisogno di uccidere "vittime eccellenti".
 


Tuttavia, in questi decenni spesso la politica è stata invece attenta e metodica nel depotenziare strumenti di indagine e risorse a disposizione di magistrati ed inquirenti. Più volte, lo stesso don Lugi Ciotti ha dovuto denunciare in questi anni la inefficacia di leggi, norme e provvedimenti che risultano poco efficaci, se non inutili, in quanto frutto di mediazioni al ribasso,  frutto di "accordi "sottobanco" tra i partiti".

La vita e il lavoro di Rosario Livatino ( fonte LINKIESTA)
Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 da padre avvocato e madre casalinga. Dopo il liceo classico si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. A 22 anni era arrivata la laurea cum laude, poi il servizio come vicedirettore in prova all’Ufficio del Registro di Agrigento, per due anni tra il ‘77 e il ‘78. Infine l’ingresso in magistratura nel tribunale di Caltanissetta. Ad Agrigento era approdato nel ‘79, prima come sostituto procuratore e poi, dieci anni dopo, come giudice a latere o sostituto procuratore della Repubblica.
Nella sua carriera si è occupato di criminalità e ha indagato la presenza delle mafie e della corruzione nell’Agrigentino. È famoso il suo interrogatorio all’allora ministro Calogero Mannino, accusato di legami con vari boss e di aver stipulato un accordo elettorale con un esponente agrigentino di Cosa nostra, Antonio Vella, nel biennio 1980-1981. Per la cronaca, Mannino verrà poi arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in appello nel 2008, per mancanza di prove.
Il “giudice ragazzino”, appellativo con cui Livatino è spesso ricordato, si deve al sociologo Nando dalla Chiesa che gli ha dedicato un libro. «A 28 anni, molto giovane, Livatino si era occupato Inchiesta sui Cavalieri del Lavoro di Catania – spiega l’autore –, un gruppo di quattro imprenditori potentissimi nell’edilizia e non solo, che allora sembravano costituire il potere economico più forte nel Sud. Quando ho sentito quello che Cossiga aveva detto di quei giovani giudici siciliani, cioè che "non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre un’indagine complessa", e ho ripensato a quello che Livatino aveva avuto il coraggio di fare, ho deciso di titolare così il libro. Ho pensato che giovani così sono necessari alla magistratura, e che il capo del Csm avrebbe dovuto difenderli anziché attaccarli».
La morte del “giudice ragazzino” fu attribuita a un conflitto di mafia: la Stidda l’avrebbe ucciso per punire un magistrato severo e «per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra». Nel 2001 una sentenza della Cassazione condanna all’ergastolo i quattro sicari –  Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro –, incastrati dalla testimonianza di un uomo che passava sulla strada il giorno dell’esecuzione, Pietro Nava.
Le vere cause della sua morte, per altri, sono invece da attribuirsi alle sue indagini sui legami tra mafia e politica. Di certo la politica non l’ha aiutato: «Non ci sono stati quegli interventi che mettono la giustizia in condizioni di lavorare», dirà Borsellino a proposito della sua morte.


Uno dei primi ad accorrere sulla scena del delitto fu Paolo Borsellino, che rimase molto colpito dall'uccisione del "giudice ragazzino". Così ricorderà quella uccisione: «Lo hanno braccato come un coniglio, povero Rosario, (...)».





La vita, la morte e la memoria di Rosario Livatino sono l'occasione per sottolineare la responsabilità civile a cui noi cittadini siamo chiamati: solo grazie alla testimonianza Pietro Ivano Nava, il tranquillo rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, è stato possibile rendere giustizia a Rosario Livatino, individuando l'esecutore e i mandanti dell'assassinio del "giudice ragazzino"Tutti condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di giudizio,  con pene ridotte per i "collaboranti".

La storia di Pietro Ivano Nava, il testimone dell'omicidio di Rosario Livatino.  

"COSI' PAGA CHI AIUTA LO STATO".


fonte La Repubblica 08 aprile 1992 

Di Giuseppe D’Avanzo
(…) Era un venerdì caldo e senza afa. Erano le nove del mattino. Pietro Ivano Nava, agente di commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a quattro chilometri da Agrigento.
Vide sul lato della strada una Ford Fiesta rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un ragazzotto con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una pistola. Insegue Rosario Livatino. Il "giudice ragazzino" di Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando la fuga in un vallone di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo braccherà come una bestia. Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto, sparerà ancora - quattro volte - per finirlo. Pietro Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene l' assassino in faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: "Ho visto l' assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo". E lo ha riconosciuto davvero Domenico Pace, l' assassino.
"Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l' uno né l' altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un' entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono...". Pietro Ivano Nava è oggi un fantasmaHa lasciato la casa di Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto per dieci anni. E' stato cancellato dai registri dell' anagrafe, dall' elenco telefonico, dal ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia romana, si è rifugiato su un' isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda. 
Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo
Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono. 
Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". ( N.d.r.: all'epoca dell'articolo era ancora da venire la Legge 41/2001 che introduce  la figura del "testimone di giustizia" nella giurisdizione italiana)
E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".

martedì 15 settembre 2015

Don Pino Puglisi: "E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto".

Padre Pino Puglisi. Ma per i suoi parrocchiani era "3P".
«Era uno che non si era incanalato, che faceva di testa sua». «Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada... Martellava e rompeva le scatole». Le parole di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Dr
ago, mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, basterebbero a spiegare, nella loro rozza schiettezza,perché don Pino Puglisi è stato ucciso. Anche per don Puglisi vale la differenza fondamentale tra Lui e altri, altri sacerdoti, altri uomini e donne del suo tempo: lui vedeva ma non taceva! 

Don Lugi Ciotti così ne parla:  "(...) un modo così radicale di abitare la strada e di esercitare il ministero del parroco è scomodo (...)".

Don Puglisi  era differente: "(...) si sapeva che faceva delle messe non proprio a favore della mafia". Fu ucciso dalla mafia la sera del suo compleanno, il 15 settembre 1993: erano passate da poco le otto della sera. Salvatore Grigoli, il killer che lo aspettava, don Pino sorrise dicendo "Me l' aspettavo".

 Qui la notizia pubblicata su La Repubblica , lo scorso anno, secondo la quale sarebbe stato ritrovato un nastro registrato nel quale Don Puglisi, mostra la consapevolezza di essere in grave pericolo: "Il testimone deve rischiare...io sto rischiando  grosso forse, non lo so, però credo nell'amicizia". Ma Don Puglisi rimase non andò via da Brancaccio

Il sogno di don Puglisi: "Pochi giorni fa, prima di tornare qui come parroco, io ho sognato il futuro di questo quartiere ed è stato proprio bello. Bello perché ho sognato un posto dove erano spariti i furti, era sparita la droga, dove non c'erano più violenze, prepotenze, dove la gente non aveva paura, dove non c'era più la fame perché c'era lavoro per tutti, dove c'erano delle scuole bellissime, dove i bambini giocavano... Io ho sognato il futuro di questo quartiere ed è stato proprio bello!"


Riproponiamo l'articolo de La Stampa, pubblicato lo scorso maggio 2014 in occasione della beatificacazione di Don Puglisi

Decine di migliaia a Palermo
per don Puglisi proclamato beato



IL MARTIRE DELLA FEDE DON PUGLISI È IL PATRONO DELLA CHIESA ANTI-MAFIA. «D’ORA IN POI NESSUNO POTRÀ PIÙ USURPARE IL NOME DI DIO PER GIUSTIFICARE LA MENTALITÀ CRIMINALE DI QUEI CLAN CHE PER DECENNI SI SONO AMMANTATI DI FALSA E BLASFEMA RELIGIOSITÀ», AFFERMA A IL VESCOVO DI MAZARA DEL VALLO DOMENICO MOGAVERO, EX POSTULATORE DELLA CAUSA DI BEATIFICAZIONE DEL PARROCO PALERMITANO UCCISO DA COSA NOSTRA. 

«L’autentica fede in Cristo è incompatibile con qualunque appartenenza ad organizzazioni che avvelenano la società e la privano del suo futuro»,aggiunge Mogavero, presente insieme a oltre 80mila fedeli al Foro italico di Palermo per la beatificazione di Padre Pino Puglisi, il sacerdote di Brancaccio che sorrise anche di fronte ai killer della mafia che lo uccisero il 15 settembre 1993. 

Sul Prato del Foro italico c’è un clima di festa serena, tantissime le famiglie presenti, centinaia i volontari provenienti da tutta Italia, scout e associazioni di quartiere. E poi ci sono tantissimi ragazzi che quando Don Pino era a Palermo non erano ancora nati. L’annuncio era stato dato il 28 giugno scorso: don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, nuovo Beato. Benedetto XVI aveva riconosciuto il fatto che l’esecuzione ordinata dai boss e avvenuta davanti alla parrocchia di San Gaetano, retta dal sacerdote, nel quartiere Brancaccio, fu «martirio», commesso «in odio alla fede». 

E Papa Francesco, appena lunedì scorso, durante la visita «ad limina» della Conferenza episcopale siciliana ha esortato la Chiesa locale a dare contro la mafia, una testimonianza più chiara e più evangelica. Nei quasi 20 anni che separano dall’assassinio di padre Pino, «la verità è infine emersa», ha a suo tempo spiegato il postulatore della causa di beatificazione, l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, legando la verità del martirio di Puglisi a «quella giudiziaria, vergata con inchiostro indelebile dalla Cassazione» secondo cui «l’omicidio fu deciso dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano per mettere a tacere un sacerdote scomodo, socialmente impegnato, che col suo ministero di pastore di anime, di formatore di coscienze cristiane, soprattutto di quelle dei fanciulli, li ridicolizzava sottraendo loro manovalanza, prestigio e potere, come del resto sprezzantemente li rimproverava uno dei capi indiscussi di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella».  

Chi diede l’ordine di ucciderlo lo fece «non per eliminare un pericoloso nemico, alla stregua di magistrati, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile, ma per cercare di fermare un luminoso testimone di fede». Puglisi «era persona tutta di un pezzo, agiva umilmente, con semplicità, senza cercare visibilità, antieroe: annunciava e proclamava l’Unico Necessario, il Padre Nostro». E fu proprio l’essere un uomo libero, «armato della sola forza della Parola, a costargli la vita», giustiziato dall’odio che i mafiosi nutrivano verso il suo modo di essere sacerdote.
 La sua figura riveste un ruolo di «grande importanza per la società civile, per la Chiesa universale, in particolare per la Chiesa palermitana e siciliana e per tutte quelle che si confrontano sul proprio territorio con le organizzazioni criminali, perché il suo sacrificio ha svelato il grande inganno della mafia, sedicente portatrice di religiosità. Il suo esempio è stato ed è così forte da aver attraversato il tempo: nei 19 anni trascorsi, Brancaccio, Palermo, la Sicilia, l’Italia, il mondo non lo hanno dimenticato». 

«La mafia è intrinsecamente anticristiana», ha poi ribadito il prefetto della Congregazione per le cause dei santi, cardinale Angelo Amato. Quello di don Puglisi, spiega, è stato un «martirio, perché è stato ucciso in odium fidei». «Ovviamente - ha sottolineato il cardinale salesiano - qui bisogna chiarire cosa significa in odium fidei, dal momento che la mafia viene descritta spesso come una realtà “religiosa”, una realtà i cui membri sembrano apparentemente molto devoti». Nel processo canonico, è stato approfondito questo aspetto «e abbiamo visto come, da una parte, abbiamo un’organizzazione che, più che “religiosa”, è essenzialmente “idolatrica”». Anche il paganesimo antico, ricorda Amato, era “religioso”, ma la sua religiosità era rivolta agli idoli. Nella mafia gli idoli sono il potere, il denaro e la prevaricazione. È quindi una società che, con un involucro pseudo religioso, veicola un’etica antievangelica, che va contro i dieci comandamenti e il Vangelo. La Scrittura dice: non uccidere, non dire falsa testimonianza. Nella ideologia mafiosa, invece, si fa esattamente l’opposto. Gesù ha detto di perdonare ai nemici e qui troviamo il contrario: la vendetta. Per la Chiesa Cattolica, dunque, «la mafia è intrinsecamente anticristiana». Per di più, l’odio verso don Puglisi era determinato «semplicemente dal fatto che si trattava di un sacerdote che educava i giovani alla vita buona del Vangelo». Dunque «sottraeva le nuove generazioni alla nefasta influenza della malavita». Davanti a casi analoghi, altri vescovi, potranno ora decidere di seguire l’esempio dell’arcidiocesi di Palermo e introdurre cause di beatificazione per chi ha pagato con la vita il suo impegno per sottrarre i ragazzi alle cosche.  

Secondo il prefetto per le cause dei santi, «pur in un contesto nuovo anche in don Puglisi si verifica il concetto tradizionale di martirio e cioè, appunto, un battezzato ucciso in odio alla fede». È stato ucciso «in quanto sacerdote, non perché immerso in attività socio-politiche particolari. Ucciso in quanto predicava la dottrina cristiana ed educava i giovani a vivere con coerenza il loro battesimo».
Morì per strada, ha sottolineato don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, «dove viveva, dove incontrava i `piccoli´, gli adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto e quanti, con la propria condotta, si rendevano responsabili di illegalità, soprusi e violenze. Probabilmente per questo lo hanno ucciso: perché un modo così radicale di abitare la strada e di esercitare il ministero del parroco è scomodo. Lo hanno ucciso nell’illusione di spegnere una presenza fatta di ascolto, di denuncia, di condivisione». Per don Ciotti, il sacerdote palermitano «ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere, come preti, in parrocchia». Con la sua testimonianza, dunque, don Pino «ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio». 
Don Puglisi, “figura bellissima”, è stato ucciso “in odium fidei”, per odio della fede da parte di chi lo ha assassinato, ottolinea il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei:”E’ stato ucciso in quanto sacerdote che faceva il suo dovere, specialmente sul piano educativo delle giovani generazioni. E dunque è un martire».  

lunedì 14 settembre 2015

Dario Seglie e "La Pinerolo degli Indignati": indignarsi e impegnarsi è una forza prodigiosa

Nella settimana di fine agosto, l'articolo della redazione di Vita Diocesana nel quale si ri-proponeva l'immagine di Pinerolo come "capitale" (leggi qui), ha suscitato qualche dibattito nella comunità pinerolese. Comunità già allertata dai titoli dei giornali locali del fatto che, quella che si andava a riaprire, non  sarebbe stata una  stagione come le altre: fra pochi mesi si terranno infatti le elezioni aministrative che eleggeranno il nuovo sindaco! E di già  nomi di candidati si stagliano sulla ribalta....chi "costretto", chi reclamato a gran voce...Tutto questo mentre vecchi e nuovi problemi affliggono una "capitale" in evidente difficoltà: un Piano Regolatore abnorme ma "immutato"; una cosiddetta "Variante ponte" che si è rivelata, a detta delle associazioni che ne hanno seguito l'evolversi, la mera risposta a pochi e "privati interessi" (leggi qui); una città ( conservatrice) che ha subito pesantemente la crisi economica e la perdita di sedi istituzionali. 

Per quanti di quei nomi che "accorrono a servire la città" varrà il principio dell'antica Grecia di Pericle? "(...)Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito (...)". Viene da dire: "Un altro tempo e un altro mondo!". Ben differente dal mondo della politica e della società italiana dei nostri giorni. Un mondo tratteggiato sinteticamente anche dal prof. Dario Seglie nel suo scritto " La Pinerolo degli Indignati", pubblicato da Vita Diocesana, nel numero del 6 settembre 2015.

Il prof. Seglie pare aver raccolto realmente l'invito ad essere "eretici", (leggi qui), giacchè non cela il suo pensiero dietro pietose menzogne. Cosicchè, riconosciamo tutti la società italiana, divisa nelle due fazioni da lui descritte: da un lato coloro che detengono "il Potere" e i loro sodali, gli appartenenti alla casta della politica e/o delle varie oligarghie (locali o nazionali poco importa); dall'altro lato i cosiddetti "cittadini", in realtà più simili a moderni "servi della gleba", sudditi "di una reale oligarchia che non ha fondamento democratico se non l'accaparramento dei voti...". E il prof. Seglie descrive pure le liturgie della "pantomima democratica": la tracotanza del "potere" a negare una partecipazione dei cittadini con la  retorica del"..ma noi siamo gli eletti!"; "commissioni e gruppi di lavoro che esistono solo sulla carta". 

Condividiamo il pensiero: questo è davvero il tempo di essere "eretici", indignarsi e impegnarsi", se si vuole cambiare il corso delle cose. "Nani" che siamo, impariamo a salire sulle spalle di "giganti" come Bertrand Russell: "Non smettete mai di protestare; non smettete mai di dissentire, di porvi domande, di mettere in discussione l’autorità, i luoghi comuni, i dogmi. Non esiste la verità assoluta. Non smettete di pensare. Siate voci fuori dal coro. Siate il peso che inclina il piano. (...) Un Uomo che non dissente è un seme che non crescerà mai."

                                                                                                              

 Fonte: Vita Diocesana

La Pinerolo degli Indignati

Una riflessione critica sul passato, sul presente e soprattutto sul futuro della città

Tensioni e divisioni non solo tra i gruppi storici di riferimento, i partiti, ma divaricazioni e fazioni all'interno di essi, nell'intento di scendere in lizza, sbaragliare gli avversari e conquistare, o riconquistare, o trattenere, il potere, la “governance” come si dice oggi per abbellire ed addolcire il detto medievale “tenere il coltello dalla parte del manico”. Brandeggiare il coltello è comunque, a destra come a sinistra (per usare due categorie politiche desuete ma chiare) l'operazione fondamentale per tracciare il solco, o la ferita, il vallo tra i pochi “stakeholder” (in italiano: i padroni del vapore) ed i molti cittadini, spesso considerati -come se fossimo ancora nell'epoca feudale- non “citoyen”, ma servi della gleba, al massimo sudditi di una reale oligarchia che non ha fondamento democratico se non l'accaparramento dei voti (non solo con il baratto, ma soprattutto con promesse e programmi di facciata e specchietti per le allodole, “ballon d'essai” non per innalzare la mongolfiera, ma “pour épater les burgeois”, per gettare fumo negli occhi) per un “do ut des” (dare e avere, in partita doppia computistica, quella che insegnava la Professoressa di Ragioneria Emma Liggiardi, detta la Tigre del Bengala per la sua severità, all'Istituto Buniva di Pinerolo, subito dopo la seconda guerra mondiale; la ricordo con affetto perché, lei al secondo piano ed io, bambino, al primo di una bella casa seicentesca di fronte al Palazzo del Vescovo, da lei ricevevo regalini e carezze). Decisioni e azioni di imperio che non hanno neppure l'aura del divino che incornicia il monarca, ma solo la caliginosa “nigredo” delle persistenti alchimie elettorali covate negli antri sotterranei profondi dei gruppi di potere.

Dall'alchimia vorremmo passare finalmente alla chimica, non solo in campo scientifico e tecnico, uscire dal Medioevo, saltando il Rinascimento, ed approdando al Risorgimento Democratico Contemporaneo, con esiti inclusivi veraci, soprattutto in campo elettorale, per proseguire con la coerente azione sul territorio, cioè sulla nostra pelle di cittadini liberi ed uguali, con trasparenti, intelligenti, valide, vigorose azioni partecipate e condivise da tutta la gente, perché o siamo in democrazia reale o torniamo in un astorico ad inaccettabile feudalesimo. Governare una città, un territorio, uno stato, non significa, e non deve mai più significare, pensare di essere l' ”unto del signore” ed agire nel chiuso del palazzo, con il ponte levatoio sempre alzato per evitare che la “plebaglia” possa sapere, possa dar noia ai “rappresentanti del popolo” ! Ma dopo il feudalesimo e l'assolutismo ci fu la presa della Bastiglia e su tutti i municipi di Francia, sulla facciata, è ancora oggi scritto a caratteri cubitali Liberté, Egalité, Fraternité”; Pinerolo fu Francia per tre lunghi periodi, nel 1500, nel 1600 ed a cavallo tra 1700 e 1800. Non sarebbe di troppo e tanto meno sconveniente se sulla facciata fascista del Municipio (che maschera l'Arsenale francese del 1650) ci fosse, almeno idealmente, scolpito l'illuministico trinomio rivoluzionario.
Citando un grande “maître à penser”, Herbert Marcuse (ed in particolare il suo testo “L'uomo a una dimensione”, 1964) il padre nobile dei moti rivoluzionari giovanili del '968, iniziati nei campus statunitensi e quindi approdati in Europa, dice che nelle moderne democrazie occidentali i valori, che una volta erano propri di una parte della società (la classe borghese), si sono diffusi a tutti gli altri soggetti sociali. Ma è proprio a questo punto del processo "democratico" che si innesca il meccanismo repressivo: l'azione totalizzante dell'esistenza da parte dei potentati, di fatto, impedisce una scelta che sia veramente libera; si genera un diffuso conformismo che produce l'uomo unidimensionale.
E' una parte della società che condiziona i veri bisogni umani, sostituendoli con altri artificiali, è il consumismo per il mercato divoratore, dove tutto ha un prezzo e nulla ha un valore; questa caduta etica, questo nuovo classismo polarizzato che raggruppa la ricchezza ed il potere in ristretti ambiti, apre le porte a forme estreme di mercificazione includenti la corruzione e l'intollerabile diseguaglianza tra i pochi ricchissimi ed i tanti poverissimi. Questa "democratica non-libertà" permea tutto di sé, niente le sfugge, neanche gli strati tradizionalmente anti-sistema come la classe operaia, che si è ormai pienamente integrata nel sistema stesso; segnale eloquente che non siamo ancora usciti dalla “democrazia bloccata”, dallo stato di ipnosi sociale che ci vede remissivi piuttosto che propositivi, assertivi, attivi per cambiare una società opprimente ed ingiusta.
Ed allora chi ? C'è una nuova classe emergente che sta guadagnando rapidamente la ribalta se non ancora il potere: gli Indignati. Indignarsi è una forza prodigiosa, a costo zero, in grado di farci uscire dalla palude Stigia (alimentata dal Chisone), dove l'unico che gode è ovviamente il nostrano Caron Dimonio ed i suoi Satanassi.
"Immaginazione al potere" divenne una delle parole d'ordine dei giovani del sessantotto, ai quali Marcuse guardò come veicolo attraverso il quale si può realizzare la liberazione, insieme a tutti i soggetti non integrati in esso; ma la rivoluzione generazionale prese altre vie e non sortì gli effetti sperati per migliorare l'umanità.
Chi sono oggi i “non integrati” ? Tutti coloro che si riconoscono e dialogano nei centri della Società Civile; tutti coloro che vengono tenuti lontani, esclusi, anche con tracotanza, confinati in commissioni e gruppi di lavoro che esistono solo sulla carta, coinvolti in riunioni dove l'informazione circola solo unilateralmente, senza confronto dialettico, chiudendo la gente nell'anonimato impotente della massa disinformata dei cittadini, sempre più narcotizzati ed emarginati.  
Tutta gente, la maggioranza silenziosa, che vuole e può diventare maggioranza democratica, nel senso pieno che Pericle, ad Atene, nel 5° secolo avanti Cristo le aveva dato.
Solo gli “Indignati” della Società Civile possono cambiare la situazione che si perpetua da troppo tempo, a livello locale come a livelli più ampi, metropolitano, nazionale, internazionale. Gli esempi di idee intelligenti per il territorio non mancano, ed anche persone intelligenti ed esperte esistono e potremmo fare nomi e cognomi, ma attendiamo che siano i cittadini, che devono essere i protagonisti attivi, a pronunciarsi nell'individuare i nuovi Leader.
La piazza con la fontana, già Piazza d'Armi dell'antico Arsenale di Pignerol, deve tornare ad essere il luogo dell'esercizio del potere partecipato, l'Agorà riconquistato, dopo 2500 anni, per una Governance che alla forza dell'immaginazione marcusiana aggiunga l'intelligenza dinamica e il vigore realizzativo. Il karma negativo che opprime l'anima del Pinerolese, le antiche terre dei Principi d'Acaja, deve svanire per dare finalmente cieli blu ai nostri figli ed ai figli dei nostri figli.
Dario Seglie
Settembre 2015

giovedì 10 settembre 2015

Auguri a Don luigi Ciotti, ricordando l'augurio da lui rivolto a noi tutti: "Siate eretici"

"Caro Luigi,
dirti soltanto auguri per i tuoi settanta anni è poca cosa. La grande famiglia di Libera vuole piuttosto dirti grazie per la tua voce che non ha mai smesso di denunciare il male e di incoraggiare tutti a un impegno e una corresponsabilità che non ci fanno sentire mai estranei in questo mondo. A te, prete convertito dalla strada, vogliamo dire grazie perché ci insegni a stare sulle grandi questioni sociali e globali del nostro tempo e contemporaneamente accanto alle persone. Perché tu ogni giorno continui a dire, innanzitutto con la tua vita e con le tue scelte, che esiste un punto di osservazione privilegiato per guardare alla vita: quello delle vittime. E non c'è indignazione e passione, sogno e progetto, che non sia partorito da questa radicale scelta di parte. Grazie, Luigi, per aver dato vita e anima a Libera, una realtà diffusa, composita e radicata che si è fatta grido e speranza, segno e presenza su sfide cui la società civile sembrava condannata al silenzio.
Gli amici di Libera e di Libera Terra


Gli auguri e i ringraziamenti del presidio LIBERA "Rita Atria" Pinerolo

Nel giorno in cui don Luigi Ciotti compie settanta anni, anche noi del presidio LIBERA "Rita Atria" vogliamo ringraziarlo. Vogliamo ringraziarlo invitando a riflettere su una parola, sul concetto, che anche Luigi Ciotti ha avuto il merito di ricollocare al posto che merita nella scala dei valori su cui deve essere fondata una comunità: GIUSTIZIAAl contrario, "ereticamente", "in tempi non sospetti si potrebbe dire, Luigi Ciotti denunciò il pericolo dell'uso "retorico"di certe parole, svuotate oramai di ogni significato concreto. Luigi Ciotti ebbe così il coraggio di dire che non si doveva più parlare di "Antimafia": Il termine “antimafia”? "Una di quelle parole «una volta nobili e ora snaturate da un uso superficiale che le ha rese inservibili. Parliamo invece di Responsabilità!». Erano ancora da venire i giorni dello scandalo di Mafia Capitale e dei  cosiddetti "paladini" dell'antimafia, alcuni di coloro che su quella parola svuotata hanno costruito carriere e curriculum, addirittura inquisiti per collusioni con la criminalità organizzata. Nel maggio dello scorso anno, intervenendo al congresso nazionale di Slow Food, don Ciotti iniziò il suo discorso sottolineando più volte il concetto, la necessità, di GIUSTIZIA, di GIUSTIZIA SOCIALE: "(...) c’è bisogno di giustizia nel nostro Paese, una giustizia che deve essere costruita(...)"

Quanto sia fondamentale il concetto di Giustizia lo comprendiamo ancora di più se consideriamo la riflessione che su quel concetto hanno avuto due "pietre" su cui si fonda il patrimonio morale di questo Paese: Primo Levi e Paolo Borsellino. Così Primo Levi, ricercando le motivazioni che portarono all'abisso della Shoa giunge ad isolare, nella tempesta disumana di quei giorni, la parola, il concetto, PRIVILEGIO. "Privilegio" esprime l'esatto contrario del concetto di GIUSTIZIA. Tratto da "I SOMMERSI E I SALVATI": Il privilegio per definizione difende il privilegio. (…) L’ascesa dei privilegiati, non solo nel Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. E’ compito dell’uomo giusto fare la guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine(...)".  Sul privilegio si fondano i mali del nostro Paese.

Dal lascito morale immenso di Paolo Borsellino estraiamo poche parole dalla sua ultima lettera, quella che lui scriveva a poche ore dalla sua uccisione, all'alba del 19 luglio 1992, rispondendo alla preside di un liceo di Padova presso il quale avrebbe dovuto recarsi nel gennaio di quell'anno. In quella lettera  ( qui il testo integrale) Paolo Borsellino risponde anche ad alcune domende che gli erano rivolte dagli studenti, fra queste,   :"(...)Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l'imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l'accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.(...) ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia". 

Lo ha denunciato più volte Luigi Ciotti, ne siamo convinti e così ne abbiamo scritto: " Privilegio, corruzione, mafie e mala-politica sono facce della stessa medaglia. O si combattono quelle battaglie o non si combatte niente". Allora, Auguri a don Luigi Ciotti! E a noi tutti, l'augurio di saper e voler combattere  la battaglia di cui parla Primo Levi, impegnandoci, cercando di essere tra coloro che vogliono costruire "Giustizia sociale" in questo Paese. E lo ringraziamo perchè, con l'esempio della sua vita,  ci ricorda l'importanza, la necessità, di essere eretici per costruire Giustizia!  

Don Luigi Ciotti"(...) Vi auguro di essere eretici perché eresia dal greco significa scelta. Eretico è la persona che sceglie. L’eretico è colui che più della verità ama la ricerca della verità. L’eresia dei fatti prima di quella delle parole. L’eresia che sta nell’etica prima che nei discorsi. L’eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità, dell’impegno. Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri, chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è. Eretico è colui che non si accontenta dei saperi di seconda mano, chi studia chi approfondisce chi si mette in gioco in quello che fa chi crede che solo nel “noi” l’”io” possa trovare una realizzazione. Chi si ribella al sonno delle coscienze, chi non si rassegna alle ingiustizie, chi non pensa che la povertà sia una fatalità. Chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza che sono le malattie spirituali della nostra epoca."

 

Intervento di Don Luigi Ciotti il 10/05/2014 al Congresso di Slow Food Italia : 

 "Siate eretici"


Sono molto emozionato e vi porto tutta la mia amicizia […] Nell’invito che mi avete mandato, Roberto Burdese ha scritto per me una frase che io vi riconsegno e che voi conoscete molto bene: «Il sogno condiviso di un sistema alimentare ispirato dai principi del buono, pulito e giusto».
Sì, c’è bisogno di giustizia, vi prego c’è bisogno di giustizia nel nostro Paese e non solo: dobbiamo uscire anche dai nostri recinti, dobbiamo guardare a questa mondialità, guardare alla vergogna della fame che travolge milioni, miliardi di persone. 
In Italia il problema non è solo l’insufficienza di giustizia, ma la scarsa perseveranza nel costruire giustizia. I ragazzi che noi accogliamo al gruppo Abele arrivano con storie pesanti e non ricevono 4 ore alla settimana in alternativa alla pena. Io non voglio giudicare nessuno, ma c’è bisogno di giustizia nel nostro Paese, una giustizia che deve essere costruita. Da anni in Italia c’è una guerra silenziosa, che non è combattuta con le armi militari, ma con quelle economiche. È questa la guerra silenziosa che sta avvenendo nel mondo. È in atto un gigante furto di lavoro, di giustizia e di speranza. Bisogna guardare alle nostre realtà, ma essere anche un po’ strabici e rivolgerci oltre per fermare questa guerra che sta assassinando la speranza di milioni di persone. Per ogni minuto che passa, la spesa militare nel mondo è uguale a 3.000.000 $, e non ci sono i soldi per la giustizia e la dignità delle persone. Abbiamo bisogno di giustizia. Ci sono 9.000.000 di persone in povertà relativa in Italia, 5.000.000 in povertà assoluta, ma tra chi ha perso lavoro, chi cerca lavoro, chi vive forme di precariato, chi è in cassa integrazione, chi è sfruttato, noi abbiamo 7.000.000 di persone nel nostro Paese, che vivono il disagio lavorativo. Non è possibile, e la cosa che ancora di più mi sconcerta, è che mentre noi sediamo al tavolo delle grandi potenze, l’Italia ha 6.000.000 di persone analfabete […]. Noi siamo qui per riflettere insieme, per unire i nostri pensieri, le nostre esperienze, i nostri vissuti, perché abbiamo bisogno di giustizia, di dignità, di lavoro. E il vostro grido è un grido di dignità per voi e anche per quelli che fanno più fatica. L’Italia è tra i primi posti tra i paesi europei per la corruzione pubblica e non riusciamo ad avere una legge completa di contrasto alla corruzione, la stessa che l’Europa ci chiede dal 1999. La corruzione è una ferita dentro di noi, non è un problema marginale: inquina l’economia e la politica. Deve farci stare male questa situazione.
Gli affari sporchi delle mafie interessano ormai tutta la filiera agroalimentare e con sofferenza vi devo dire che le mafie sono tornate forti. Questo non deve farci dimenticare la stima e la riconoscenza per quel coraggio e quell’impegno di molti segmenti della magistratura e delle forze di polizia, delle istituzioni, non deve farci dimenticare quella positività che anche insieme abbiamo costruito sui beni confiscati. Le sottolineo queste positività che danno dignità e speranza, ma devo ricordare che negli ultimi 20 anni in cui abbiamo lavorato insieme per fare crescere la legalità, è cresciuta di più l’illegalità nel nostro Paese. 
Già perché non è sufficiente quello che facciamo quando dall’altra parte c’è chi ha fatto leggi ad personam, quando non si fanno leggi come si dovrebbe, quando non riusciamo ad avere una legge sulla corruzione adeguata, quando da 21 anni chiediamo una legge che metta nel codice penale i reati contro l’ambiente e non riusciamo ancora a ottenerla, perché i venti contrari, gli interessi contrari ci sono e sono puntuali. 
 Le mafie sono ritornate forti, ve lo dico con estrema cognizione di causa, ma anche con tanta fatica. Hanno tanto denaro liquido in questo momento di grande crisi e comprano, investono, acquistano loro i terreni. Partono proprio dall’acquisto dei terreni e compongono tutta la filiera, fino ad arrivare ai centri commerciali. Matteo Denaro Messina aveva una percentuale alta in una catena di supermercati Italia ed è latitante da parecchi anni. La mafia ce la troviamo sulle nostre tavole, 34 ristoranti e pizzerie a Roma sequestrati dalla magistratura perché in mano all’ndrangheta calabrese. […].
C’è una violenza in guanti bianchi, una violenza anonima, del denaro che circola solo per produrre dell’altro denaro uccidendo il lavoro di tante persone. Le mafie prestano denaro attraverso pseudo società finanziarie a piccole-medie imprese in difficoltà, sono forme di usura. E in questo momento di fatica di tanta gente, inconsapevolmente molti vengono strangolati in questa situazione, ma il grande dato è la mafiosità. C’è una mafiosità diffusa che è il vero patrimonio delle mafie e dei corrotti, prima ancora del patrimonio economico e non sono io a dirlo, ma lo ha affermato in una sua relazione un paio di anni addietro la Banca d’Italia: questi personaggi mafiosi “siedono nei consigli di amministrazione di Enti pubblici”. Allora amici vi esorto nella gratitudine delle cose cha abbiamo costruito in questi anni insieme, quella raccolta di firme, 1.000.000, per sottrarre ai mafiosi i patrimoni e restituirli alla collettività, ci siamo inventati insieme le cooperative sui beni confiscati. Oggi la legge deve cambiare. Questi anni hanno permesso di vedere le ombre, i ritardi, la burocrazia del sistema, ma nonostante questo abbiamo costruito insieme qualcosa. Io ricordo la prima pasta che faceva schifo, era scotta, biologica, ma scotta e il primo vino diciamo che era buono per non umiliare i ragazzi. Poi siete arrivati voi con la vostra competenza e professionalità e poi sono arrivati gli altri amici, Cia e Coldiretti, perché bisogna stare insieme perché quello è un nemico, la mafia è un nemico.
E allora è stato tutto possibile. Il vino oggi è buono e in quel vino c’è anche un pezzo di voi, di chi si è messo in gioco per dare una mano. E lo so che è una piccola cosa quella che abbiamo fatto, quanto di più si potrebbe fare qui e altrove. E abbiamo lavorato perché qui e in Europa, dove l’ultimo dato parla di 3600 organizzazioni criminali, ci sia una direttiva di confisca dei beni a livello europeo e la restituzione alla collettività. Prepariamoci dunque a dare una mano in territori più difficili sparsi per il mondo, per accompagnarli ricchi di questa esperienza, con i nostri limiti e le nostre fatiche, ma coscienti del fatto che insieme è possibile. Le mafie non rimangono in silenzio e proprio in questi giorni c’è rappresaglia, dopo che il Papa ha voluto ricevere e sentire quei nomi incessanti di tutti i familiari delle vittime di mafia, ma se siamo uniti è il bene che vince, non vince il male e non vince la violenza e chi copre le mafie, perché i mafiosi sono nessuno. La mafia è forte, ma la forza della mafia non è dentro, ma sta fuori dalla mafia. Libera è in tutti i processi come costituzione di parte civile contro la famiglia di Matteo Denaro Messina, nel processo stato e mafia, siamo in tutti i processi contro le slot machine che mafia e camorra gestiscono. Siamo cittadini che mettono la loro faccia. Vi prego non chiamiamoci più società civile perché è come l’acqua bagnata, chiamiamoci società responsabile perché non si può essere cittadini a intermittenza, come sono tanti. E non facciamo come quelli che si commuovono per Lampedusa e poi non si vedono più, perché non basta commuoversi, ma bisogna muoversi di più tutti.
Allora non rassegniamoci a questa convivenza, non rimaniamo a guardare, dobbiamo ribellarci all’impotenza per fare in modo che a esser normale non sia l’illegalità e la corruzione, le mafie e la furbizia, ma che a diventare normale con l’impegno di tutti, sia la trasparenza. Io credo che si debba sempre distinguere per non confondere, che è importante valorizzare quanti nei vari ambiti sono onesti, puliti e trasparenti. Anche in politica c’è della bella gente che ci crede e s’impegna, pertanto bisogna evitare le facili generalizzazioni che ogni tanto si sentono, perché è il sistema che deve cambiare. Ovvio ci sono anche i lazzaroni che magari vanno a occupare il Ministero dell’Interno. Lasciatemi dire quello che diceva Giuseppe Dossetti, uno dei padri della Costituzione italiana e poi monaco, chiuso a Montesole nel silenzio della parola e che quando ha visto che qualcuno voleva mettere in discussione la Costituzione, sempre da monaco ha ripreso la parola dicendo: «che senza il rinnovamento profondo e radicale e delle coscienze e delle persone responsabili della vita amministrativa e politica, il rinnovamento sarà più apparente che reale».
È la responsabilità la spina dorsale della democrazia e della nostra Costituzione e la nostra Costituzione è fondata sull’etica della responsabilità.  
E la prima parte della Costituzione non deve essere cambiata, ma attuata. E allora la responsabilità è un sentimento morale che nasce dal rapporto vivo con la propria coscienza. Cedere la propria responsabilità è rinunciare alla nostra libertà. Siamo chiamati oggi più che mai tutti a scelte coraggiose. Il coraggio di fare scelte anche scomode e di rifiutare i compromessi. Bisogna prendere posizione e decidere ancora più oggi da che parte stare. Dobbiamo uscire dai nostri recinti. Cito le parole di Papa Francesco nel documento che ha mandato per la Giornata mondiale della pace il 1° gennaio, e i contenuti della telefonata che poi ha avuto con Carlo Petrini. In quella telefonata al di là dei riferimenti che qua ognuno rappresenta c’eravate anche voi, il vostro impegno, le vostre scelte che hanno permesso di graffiare la coscienza di tanta gente nell’arco di questi anni. E il Papa in quel documento parla della natura, dell’ambiente, dell’agricoltura, cioè parla di voi quando dice: «la fraternità aiuta a custodire e coltivare la natura in particolare il settore agricolo e il settore produttivo primario con la vitale vocazione di coltivare e custodire le risorse naturali per nutrire l’umanità». Allora qui dobbiamo uscire, sui nostri orti, sui lavori meravigliosi fatti sui beni confiscati e non dimentichiamo che è proprio l’umiltà la derivazione della parola humus che vuol dire terra. Essere umili vuol dire terra. La terra ci invita a essere persone umili. Io credo che sia giusto riconoscere il bene che c’è introno a noi per valorizzarlo e promuoverlo. Io sono nato in montagna a Pieve di Cadore e in posti così ami la natura, non puoi non amarla, il bisogno di quella dignità, di quelle vacche. Ci siamo incontrati di recente con gli amici della Coldiretti del Piemonte che ci hanno proposto le asine per il latte, perché abbiamo bisogno di dare dignità al lavoro dei ragazzi. E allora stiamo insieme con la capacità di riconoscere il bene che c’è attorno a noi per valorizzarlo, promuoverlo e sostenerlo. Anche voi siete un segno concreto di questo bene a partire de quella meraviglia di Terra Madre, perché la terra è la madre che ci dice che cosa è la speranza. C’è un grande bisogno di speranza e noi dobbiamo essere un segno di speranza curando tra noi alleanze e fiducia, stupore e accoglienza reciproca. Speranza è la consapevolezza che solo unendo le forze degli onesti la richiesta di cambiamento diventa forza di cambiamento.
Vi auguro di essere eretici perché eresia dal greco significa scelta. Eretico è la persona che sceglie. L’eretico è colui che più della verità ama la ricerca della verità. L’eresia dei fatti prima di quella delle parole. L’eresia che sta nell’etica prima che nei discorsi. L’eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità, dell’impegno. Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri, chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è. Eretico è colui che non si accontenta dei saperi di seconda mano, chi studia chi approfondisce chi si mette in gioco in quello che fa chi crede che solo nel “noi” l’”io” possa trovare una realizzazione. Chi si ribella al sonno delle coscienze, chi non si rassegna alle ingiustizie, chi non pensa che la povertà sia una fatalità. Chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza che sono le malattie spirituali della nostra epoca.