Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Nomi sconosciuti ai più; morti che camminavano e venivano uccisi ("cadaveri più o meno eccellenti"), servitori di uno Stato nel quale vi erano ( e vi sono ancora) "pezzi" di quello stessoStato che non volevano protegger quei servitori onesti; "pezzi" di Stato collusi con le mafie. Ora come allora.
Per onorare tutti loro
vorremmo sottolineare la storia di Roberto Antiochia, "vivo per sempre" anche grazie alle parole di Saveria Antiochia,
sua madre, che pochi giorni dopo i funerali scrive una lettera
durissima contro le istituzioni italiane: " Li avete abbandonati" ( qui il testo della lettera). La storia di Roberto è anche nella motivazione della Medaglia
d’Oro al Valor Civile riconosciuta a Roberto Antiochia, il più giovane e la cui storia esemplare è, lo ripetiamo, ancora oggi sconosciuta a tanti italiani.:«Agente della Polizia di Stato, in servizio a
Roma, mentre era in ferie, spontaneamente partecipava in Palermo alle
delicate e difficili indagini sull’omicidio di un funzionario di
polizia, con il quale aveva in passato collaborato, consapevole del
pericolo cui si esponeva nella lotta contro la feroce organizzazione
mafiosa. Nel corso di un servizio di scorta, rimaneva vittima di
proditorio agguato ad opera di spietati assassini. Esempio di
attaccamento al dovere spinto all’estremo sacrificio della vita»,
Palermo 6 agosto 1985.
Le ombre su nomi, volti e storie di tanti personaggi di rilievo della storia odierna di questo paese disonorano la memoria di uomini quali Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Disonora la memoria di quegli uomini la mancanza di vicinanza di "pezzi" delle istituzioni che, in alcuni casi, si manifesta ancora oggi nei confronti di magistrati impegnati in prima linea nella guerra contro le mafie.
Fonte: Antimafiaduemila
Cassarà, Antiochia e Montana, quel ricordo che scuote le coscienze
di Jole Garuti*
- 6 agosto 2015
Sono
passati trent’anni da quel 6 agosto terribile, in cui sono stati
uccisi in via Croce Rossa il vicequestore
Ninni
Cassarà e l’agente Roberto Antiochia,
ma il ricordo di quella tragedia scuote ancora le coscienze e le
menti. L’uccisione del commissario Beppe Montana a Porticello, il
28 luglio, era stato il segnale che anche la vita del vicequestore
Ninni Cassarà stava per finire. La Questura era in subbuglio per la
morte di
Beppe
Montana,
colui che aveva
creato la Squadra Catturandi,
convinto com’era
– a ragione – che i latitanti non fossero all’estero ma
rimanessero abbarbicati al territorio in cui avevano sempre vissuto e
dove avevano acquisito capacità intimidatoria e quindi potere.
Beppe con la sua allegra vitalità era molto amato dai suoi uomini,
con i quali viveva ogni ora della giornata. Per stanare i latitanti
considerava fondamentale stare nelle strade, partecipare alle feste,
conoscere i frequentatori dei bar e mescolarsi tra la gente,
rigorosamente in borghese e con gli orecchi ben aperti per captare
segnali, mentalità, notizie interessanti.
Gli uomini
della Catturandi, giovani e simpatici, si facevano voler bene da
tutti. Basti ricordare che il funerale di Roberto fu seguito da un
gruppetto di ragazzini, poco più che bambini, in lacrime per la
morte del loro amico ‘sbirro’ che tutte le mattine li portava al
bar a fare colazione.
La
rabbia per la morte del commissario Montana innescò un’altra
tragedia. La ricerca dei colpevoli portò infatti a un
calciatore del Pro Bagheria molto ben voluto dagli abitanti di
Porticello e dei quartieri popolari di Palermo, Salvatore Marino.
Si presentò in Questura con l’avvocato ma andò
all’antirapine, non alla Catturandi. Gli trovarono in casa 34
milioni avvolti in un giornale con la notizia della morte di Montana,
lo interrogarono brutalmente, lo torturarono fino a provocarne la
morte.
Cassarà
non era in questura quella notte, ma venne detto che era sua la
responsabilità della morte di Marino.
Questa
atmosfera plumbea avvolge Roberto Antiochia, arrivato sconvolto da
Roma, dov’era in ferie, per i funerali dell’amico fraterno Beppe.
Lui si rende conto della situazione, telefona a casa e racconta che
Ninni è in pericolo, che non gli hanno neppure assegnato le
indagini sulla morte di Montana, che tutti stanno andando via per
ferie o trasferimento, che è rimasto solo. I suoi lo supplicano di
tornare, ma lui insiste per rimanere a fargli da scorta,
volontariamente, anche se Cassarà non vuole essere scortato per la
consapevolezza di essere ormai ‘un morto che cammina’, come si
erano detti qualche tempo prima lui e Beppe. Roberto è
irremovibile, dice a sua madre: “Se gli succedesse
qualcosa e io non avessi fatto il possibile per proteggerlo non me lo
potrei mai perdonare”.Così, con una piccola bugia
a Ninni (“Natale Mondo mi ha invitato ad andare a mangiare con lui,
l’accompagnamo a casa, dato che è sulla nostra strada”) si
avviano insieme all’appuntamento con le bocche di fuoco dei
Kalashnikov che avrebbero sputato su di loro quasi duecento
colpi.L’isolamento, l’emarginazione, la solitudine di Cassarà
erano stati preparati abilmente. Era stata fatta circolare la voce
che Montana e Cassarà in una riunione di poliziotti avevano detto
che i boss Pino Greco e Mario Prestifilippo, responsabili di molti
omicidi e soprattutto della morte dell’agente Calogero Zucchetto,
amico carissimo di Ninni, non dovevano essere presi vivi. Nella
riunione c’era ovviamente chi poi era andato a riferirlo agli
interessati. Ma era una menzogna macroscopica, sia perché il senso
dello Stato e del dovere dei due poliziotti non avrebbe mai permesso
una simile ipotesi, sia perché Cassarà e i suoi agenti
sapevano che nella Questura c’erano delle talpe. Infatti
Roberto aveva detto al telefono a sua madre “le cose importanti ce
le scriviamo su bigliettini che poi stracciamo, perché qui anche i
muri hanno orecchie” . Non per nulla la Squadra mobile era
allora diretta da Ignazio D’Antone, poi condannato a dieci anni per
concorso esterno in associazione mafiosa.
C’è un
elemento non ancora chiarito, di quel 6 agosto.
Come
hanno fatto i mafiosi a sapere il momento esatto in cui Cassarà
sarebbe entrato nel mirino dei loro Ak-47? Loro erano pronti,
avevano preparato l’agguato dentro un palazzo posto di fronte al
portone di Ninni, ma il vicequestore era prudente. Dopo la morte di
Montana non era andato a casa per giorni, dormendo su un lettino alla
Mobile, come faceva anche Roberto. Oppure telefonava che andava a
casa e poi non lo faceva e aspettava la notte per andare a salutare
la moglie e dare un bacio ai figli. Un vita da bandito, è stato
detto, lui che i banditi li combatteva.Qualcuno ha ipotizzato che i
mafiosi avessero disposto lungo il tragitto dalla Questura a via
Chiesa Rossa delle automobili civetta che si passavano via radio il
messaggio che stava arrivando l’Alfetta bianca del Vicequestore. Ma
non potevano stare lì intere giornate. E’ più probabile che ci
sia stata una talpa che dopo la telefonata di Ninni alla moglie,
fatta dalla Questura, abbia fatto sapere che Cassarà stava
finalmente arrivando a casa.
Nell’estate
1985 si stava organizzando il maxiprocesso e preparando l’aula
bunker. Dopo l’uccisione di Montana e Cassarà, Falcone
e Borsellino furono catapultati all’Asinara
per completare in sicurezza la documentazione. Nel rapporto sui 162
Cassarà aveva contribuito a inserire molti nomi importanti, come
quello di Michele Greco, chiamato ‘il papa’ . Non
è certamente un caso che anche la sua agenda, dopo la sua morte,
sia sparita dai cassetti del suo ufficio, come accadde per quella di
Borsellino.
Con Montana e Cassarà sono stati eliminati i vertici dell’antimafia, quelli che l’antimafia la facevano davvero e non di facciata, quelli che la mafia temeva, ma quelli che lo Stato abbandonava a se stessi, lasciandoli senza attrezzature, senza computer, senza binocoli.
Saveria Antiochia, madre di Roberto, due settimane dopo la morte del figlio scrisse su Repubblica una lettera al ministro Scalfaro intitolata “Li avete abbandonati”. Una lettera durissima, in cui denunciava le assurde condizioni di lavoro della Squadra mobile di Palermo, lasciata senza computer, senza binocoli, con automobili scassate e riconoscibili anche dai bambini. Dati concreti descritti con passione amara e struggente.
Come per Rita Borsellino è stato detto che è ‘nata il 19 luglio’ , così di Saveria si può dire che è nata il 6 agosto, perché ha preso il testimone di Roberto e lo ha portato in tutta Italia, sia nelle associazioni che ha fondato, in particolare il Circolo Società Civile di Milano nel dicembre 1985 e Libera dieci anni dopo, sia nelle scuole, nei dibattiti e nelle trasmissioni TV.
Con Montana e Cassarà sono stati eliminati i vertici dell’antimafia, quelli che l’antimafia la facevano davvero e non di facciata, quelli che la mafia temeva, ma quelli che lo Stato abbandonava a se stessi, lasciandoli senza attrezzature, senza computer, senza binocoli.
Saveria Antiochia, madre di Roberto, due settimane dopo la morte del figlio scrisse su Repubblica una lettera al ministro Scalfaro intitolata “Li avete abbandonati”. Una lettera durissima, in cui denunciava le assurde condizioni di lavoro della Squadra mobile di Palermo, lasciata senza computer, senza binocoli, con automobili scassate e riconoscibili anche dai bambini. Dati concreti descritti con passione amara e struggente.
Come per Rita Borsellino è stato detto che è ‘nata il 19 luglio’ , così di Saveria si può dire che è nata il 6 agosto, perché ha preso il testimone di Roberto e lo ha portato in tutta Italia, sia nelle associazioni che ha fondato, in particolare il Circolo Società Civile di Milano nel dicembre 1985 e Libera dieci anni dopo, sia nelle scuole, nei dibattiti e nelle trasmissioni TV.
Infine,
vale la pena di ricordare che sia Bruno Contrada che D’Antone,
entrambi condannati per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’
hanno fatto carriera con la stessa trafila:dalla Squadra Mobile
di Palermo alla Criminalpol, all’ Alto commissariato antimafia, al
Sisde. Come è stato possibile?
Forse il
processo sulla trattativa tra Stato e mafia può riuscire a rendere
chiaro anche questo.
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