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mercoledì 26 agosto 2015

Pinerolo "capitale"? Una domanda. Quale risposta?

Al rientro da brevi vacanze, non può mancare di suscitare interesse l'articolo della redazione di Vita Diocesana nel quale si ri-propone l'immagine di Pinerolo, come "capitale" di un territorio più o meno vasto. Ma più importante dell'immagine di Pinerolo-capitale pare sia l'interrogativo sotteso all'immagine stessa: quale classe politica, quale energia della cosiddetta "società civile", può dare vita ad un cammino che porti al "rinascimento pinerolese"?

Come referente del presidio di LIBERA "Rita Atria" Pinerolo, la mente del sottoscritto corre a una riflessione sorta all'interno del nostro gruppo a seguito di una intervista “coraggiosa”, rilasciata nel settembre dello scorso anno dal nostro concittadino il senatore Elvio Fassone ( leggi qui); coraggiosa perchè fra altre cose- il sen. Fassone esprimeva un giudizio sugli “eletti”, coloro che sono chiamati a guidare la comunità:“(…) La classe politica non è mai all’altezza. Purtroppo infatti la politica non riesce ad attrarre chi dovrebbe. (…)” Le elezioni dovrebbero servire, nel senso antico del termine (eligere) a selezionare i migliori. Tuttavia questi dovrebbero farsi avanti, e ciò quasi mai accade.(...)".
Le parole di Elvio Fassone, come già detto, avevano stimolato una nostra riflessione, di carattere generale, sulla "politica"; una riflessione che mi permetto ora di riportare auspicando che si apra davvero un dibattito nella nostra comunità, teso a stimolare energie che si offrano -e si pongano- "a servizio" della città. Come ci ricorda anche Dario Seglie nel suo commento all'articolo di Vita Diocesana, il passato di Pinerolo meriterebbe ( imporrebbe?) una comunità che sapesse assumersi la responsabilità di esprimere eccellenza civile, etica, politica e morale. D'altra parte, a mio parere, il ruolo di "capofila-capitale" di un territorio non può che essere titolo riconosciuto dal territorio stesso (a chi vorrebbe assumere quel ruolo) in conseguenza di manifeste eccellenze civili, morali, etiche, politiche.
Arturo Francesco Incurato.

Fonte : Vita Diocesana

Pinerolo capitale? 

Leggi qui il testo integrale dell'articolo e i commenti


agosto 2015

È stato presentato il 25 luglio scorso un documento programmatico in vista delle prossime elezioni amministrative. «Pinerolo è la “capitale” dell’area omogenea pinerolese – si legge nel documento – e pertanto, diventa conseguente che anche la dimensione amministrativa della città si apra alla nuova stagione politica, individuando una delega specifica all’area omogenea metropolitana nella giunta di Pinerolo, da affidare ad un profilo che rappresenti l’espressione coesa di tutto il pinerolese e capace di coinvolgere le migliori energie disponibili ad investire per la città ed il suo territorio in un’ottica “metropolitana”». Insomma, Pinerolo immaginata come capoluogo di una mini-provincia.

Ma chi può dare gambe e concretezza a questo progetto? «Gli strumenti operativi – si legge ancora – dovranno essere individuati in soggetti che già operano sul territorio e che rappresentano un patrimonio consolidato di energie ed esperienze, sia individuali che collettive». Parallelamente a questo progetto, denominato solennemente “per un nuovo rinascimento pinerolese” (forse anche solo “rinascita” potrebbe bastare), già spuntano nomi e cognomi di aspiranti sindaco (o dovremmo dire presidente?). L’autunno, con ogni probabilità, imporrà alle varie formazioni politiche di scoprire le carte.

La Redazione

giovedì 6 agosto 2015

Ninnì Cassarà e Roberto Antiochia: uccisi dalla mafia il 6 agosto 1985

Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Nomi sconosciuti ai più; morti che camminavano e venivano uccisi ("cadaveri più o meno eccellenti"), servitori di uno Stato  nel quale vi erano ( e vi sono ancora) "pezzi" di quello stessoStato che non volevano protegger quei servitori onesti; "pezzi" di Stato collusi con le mafie. Ora come allora.
Per onorare tutti loro vorremmo sottolineare la storia di Roberto Antiochia, "vivo per sempre" anche grazie alle parole di Saveria Antiochia, sua madre, che pochi giorni dopo i funerali scrive una lettera durissima contro le istituzioni italiane: " Li avete abbandonati" ( qui il testo della lettera). La storia di Roberto è anche nella motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Civile riconosciuta a Roberto Antiochia, il più giovane e la cui storia esemplare è, lo ripetiamo, ancora oggi sconosciuta a tanti italiani.Agente della Polizia di Stato, in servizio a Roma, mentre era in ferie, spontaneamente partecipava in Palermo alle delicate e difficili indagini sull’omicidio di un funzionario di polizia, con il quale aveva in passato collaborato, consapevole del pericolo cui si esponeva nella lotta contro la feroce organizzazione mafiosa. Nel corso di un servizio di scorta, rimaneva vittima di proditorio agguato ad opera di spietati assassini. Esempio di attaccamento al dovere spinto all’estremo sacrificio della vita», Palermo 6 agosto 1985.  
Le ombre su nomi, volti e storie di tanti personaggi di rilievo della storia odierna di questo paese disonorano la memoria di uomini quali Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia. Disonora la memoria di quegli uomini la mancanza di vicinanza di "pezzi" delle istituzioni che, in alcuni casi, si manifesta  ancora oggi nei confronti di magistrati impegnati in prima linea nella guerra contro le mafie.
 

 Fonte: Antimafiaduemila

Cassarà, Antiochia e Montana, quel ricordo che scuote le coscienze 

di Jole Garuti* - 6 agosto 2015
Sono passati trent’anni da quel 6 agosto terribile, in cui sono stati uccisi in via Croce Rossa il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, ma il ricordo di quella tragedia scuote ancora le coscienze e le menti. L’uccisione del commissario Beppe Montana a Porticello, il 28 luglio, era stato il segnale che anche la vita del vicequestore Ninni Cassarà stava per finire. La Questura era in subbuglio per la morte di Beppe Montana, colui che aveva creato la Squadra Catturandi, convinto com’era – a ragione – che i latitanti non fossero all’estero ma rimanessero abbarbicati al territorio in cui avevano sempre vissuto e dove avevano acquisito capacità intimidatoria e quindi potere. Beppe con la sua allegra vitalità era molto amato dai suoi uomini, con i quali viveva ogni ora della giornata. Per stanare i latitanti considerava fondamentale stare nelle strade, partecipare alle feste, conoscere i frequentatori dei bar e mescolarsi tra la gente, rigorosamente in borghese e con gli orecchi ben aperti per captare segnali, mentalità, notizie interessanti.
Gli uomini della Catturandi, giovani e simpatici, si facevano voler bene da tutti. Basti ricordare che il funerale di Roberto fu seguito da un gruppetto di ragazzini, poco più che bambini, in lacrime per la morte del loro amico ‘sbirro’ che tutte le mattine li portava al bar a fare colazione.
La rabbia per la morte del commissario Montana innescò un’altra tragedia. La ricerca dei colpevoli portò infatti a un calciatore del Pro Bagheria molto ben voluto dagli abitanti di Porticello e dei quartieri popolari di Palermo, Salvatore Marino. Si presentò in Questura con l’avvocato ma andò all’antirapine, non alla Catturandi. Gli trovarono in casa 34 milioni avvolti in un giornale con la notizia della morte di Montana, lo interrogarono brutalmente, lo torturarono fino a provocarne la morte.
Cassarà non era in questura quella notte, ma venne detto che era sua la responsabilità della morte di Marino.
Questa atmosfera plumbea avvolge Roberto Antiochia, arrivato sconvolto da Roma, dov’era in ferie, per i funerali dell’amico fraterno Beppe. Lui si rende conto della situazione, telefona a casa e racconta che Ninni è in pericolo, che non gli hanno neppure assegnato le indagini sulla morte di Montana, che tutti stanno andando via per ferie o trasferimento, che è rimasto solo. I suoi lo supplicano di tornare, ma lui insiste per rimanere a fargli da scorta, volontariamente, anche se Cassarà non vuole essere scortato per la consapevolezza di essere ormai ‘un morto che cammina’, come si erano detti qualche tempo prima lui e Beppe. Roberto è irremovibile, dice a sua madre: “Se gli succedesse qualcosa e io non avessi fatto il possibile per proteggerlo non me lo potrei mai perdonare.Così, con una piccola bugia a Ninni (“Natale Mondo mi ha invitato ad andare a mangiare con lui, l’accompagnamo a casa, dato che è sulla nostra strada”) si avviano insieme all’appuntamento con le bocche di fuoco dei Kalashnikov che avrebbero sputato su di loro quasi duecento colpi.L’isolamento, l’emarginazione, la solitudine di Cassarà erano stati preparati abilmente. Era stata fatta circolare la voce che Montana e Cassarà in una riunione di poliziotti avevano detto che i boss Pino Greco e Mario Prestifilippo, responsabili di molti omicidi e soprattutto della morte dell’agente Calogero Zucchetto, amico carissimo di Ninni, non dovevano essere presi vivi. Nella riunione c’era ovviamente chi poi era andato a riferirlo agli interessati. Ma era una menzogna macroscopica, sia perché il senso dello Stato e del dovere dei due poliziotti non avrebbe mai permesso una simile ipotesi, sia perché Cassarà e i suoi agenti sapevano che nella Questura c’erano delle talpe. Infatti Roberto aveva detto al telefono a sua madre “le cose importanti ce le scriviamo su bigliettini che poi stracciamo, perché qui anche i muri hanno orecchie” . Non per nulla la Squadra mobile era allora diretta da Ignazio D’Antone, poi condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
C’è un elemento non ancora chiarito, di quel 6 agosto.
Come hanno fatto i mafiosi a sapere il momento esatto in cui Cassarà sarebbe entrato nel mirino dei loro Ak-47? Loro erano pronti, avevano preparato l’agguato dentro un palazzo posto di fronte al portone di Ninni, ma il vicequestore era prudente. Dopo la morte di Montana non era andato a casa per giorni, dormendo su un lettino alla Mobile, come faceva anche Roberto. Oppure telefonava che andava a casa e poi non lo faceva e aspettava la notte per andare a salutare la moglie e dare un bacio ai figli. Un vita da bandito, è stato detto, lui che i banditi li combatteva.Qualcuno ha ipotizzato che i mafiosi avessero disposto lungo il tragitto dalla Questura a via Chiesa Rossa delle automobili civetta che si passavano via radio il messaggio che stava arrivando l’Alfetta bianca del Vicequestore. Ma non potevano stare lì intere giornate. E’ più probabile che ci sia stata una talpa che dopo la telefonata di Ninni alla moglie, fatta dalla Questura, abbia fatto sapere che Cassarà stava finalmente arrivando a casa.
Nell’estate 1985 si stava organizzando il maxiprocesso e preparando l’aula bunker. Dopo l’uccisione di Montana e Cassarà, Falcone e Borsellino furono catapultati all’Asinara per completare in sicurezza la documentazione. Nel rapporto sui 162 Cassarà aveva contribuito a inserire molti nomi importanti, come quello di Michele Greco, chiamato ‘il papa’ . Non è certamente un caso che anche la sua agenda, dopo la sua morte, sia sparita dai cassetti del suo ufficio, come accadde per quella di Borsellino.
Con Montana e Cassarà sono stati eliminati i vertici dell’antimafia, quelli che l’antimafia la facevano davvero e non di facciata, quelli che la mafia temeva, ma quelli che lo Stato abbandonava a se stessi, lasciandoli senza attrezzature, senza computer, senza binocoli.
Saveria Antiochia, madre di Roberto, due settimane dopo la morte del figlio scrisse su Repubblica una lettera al ministro Scalfaro intitolata “Li avete abbandonati”. Una lettera durissima, in cui denunciava le assurde condizioni di lavoro della Squadra mobile di Palermo, lasciata senza computer, senza binocoli, con automobili scassate e riconoscibili anche dai bambini. Dati concreti descritti con passione amara e struggente.
Come per Rita Borsellino è stato detto che è ‘nata il 19 luglio’ , così di Saveria si può dire che è nata il 6 agosto, perché ha preso il testimone di Roberto e lo ha portato in tutta Italia, sia nelle associazioni che ha fondato, in particolare il Circolo Società Civile di Milano nel dicembre 1985 e Libera dieci anni dopo, sia nelle scuole, nei dibattiti e nelle trasmissioni TV.
Infine, vale la pena di ricordare che sia Bruno Contrada che D’Antone, entrambi condannati per ‘concorso esterno in associazione mafiosa’ hanno fatto carriera con la stessa trafila:​dalla S​quadra Mobile di Palermo alla Criminalpol, all’ Alto commissariato antimafia, al Sisde. Come è stato possibile?
Forse il processo sulla trattativa tra Stato e mafia può riuscire a rendere chiaro anche questo.

domenica 2 agosto 2015

BOLOGNA - 2 AGOSTO 1980

BOLOGNA 2 AGOSTO 1980 
Il Dovere della memoria. Oggi, dopo 35 anni Silvana Ancillotti su La Repubblica ricorda l'esplosione nella sala d'aspetto della stazione. Quel giorno  era con due amiche  e la piccola Angela Fresu, tutte morte. Era la più vicina al tritolo ma nessun giudice ha mai ascoltato il suo racconto ( leggi qui
 Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’successo e forse potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire “a qualcosa e a qualcuno” spargere sangue innocente, seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee, valori.
Sul Fatto Quotidiano, lo scorso anno,  Emiliano Liuzzi aveva scritto parole dure gettando luce su coloro che, anch'ese vittime della Strage, sono stati dimenticati: I feriti, i feriti a morte: "(...) che sono rimasti nell’illusione che il sacrificio sotto a quelle macerie servisse come sacrificio, appunto. Come vergogna".
Non c'è il sentimento della vergogna in quei "pezzi" dello Stato Italiano che, a distanza di vent'anni, consente che anche questa la strage rimanga senza i colpevoli maggiori. 
Anche per la Strage di Bologna valgono le parole di Roberto Scarpinato:  (...)“La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo, sebbene condiviso da decine e decine di persone,  è il segno che su quel segreto è imposto il sigillo del Potere”.

     

 La strage alla Stazione e le sue vittime innocenti



Cortometraggio disponibile per gentile concessione dell'Associazione tra i familiari delle vittime strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980.



fonte del testo
ASSOCIAZIONE TRA I FAMIGLIARI DELLE VITTIME DELLA STRAGE ALLA STAZIONE DI BOLOGNA 2 AGOSTO 1980

Il 2 agosto 1980, alle ore 10,25una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. 
Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario.
Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere.
Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.(testimonianze di Biacchesi e da "Il giorno")
La violenza colpì alla cieca cancellando a casaccio vite, sogni, speranze.
Marina Trolese, 16 anni, venne ricoverata all'ospedale Maggiore, il corpo devastato dalle ustioni. Con la sorella Chiara, 15 anni, era in partenza per l'Inghilterra. Le avevano accompagnate il fratello Andrea e la madre Anna Maria Salvagnini. Il corpo di quest'ultima venne ritrovato dopo ore di scavo tra le macerie. Andrea e Chiara portano ancora sul corpo e nell'anima i segni dello scoppio. Marina morì dieci giorni dopo l'esplosione tra atroci sofferenze.

Angela Fresu, la vittima
più giovane  della strage
Maria Fresu si trovava nella sala della bomba con la figlia Angela di tre anni. Stavano partendo con due amiche per una breve vacanza sul lago di Garda. Il corpicino della piccola, la più giovane delle vittime, venne ritrovato subito. Solo il 29 dicembre furono riconosciuti i resti della madre.

Torquato Secci, impiegato alla Snia di Terni, venne allertato dalla telefonata di un amico del figlio Sergio, Ferruccio, che si trovava a Verona. Sergio lo aveva informato che a causa del ritardo del treno sul quale viaggiava, proveniente dalla Toscana, aveva perso una coincidenza a Bologna e aveva dovuto aspettare il treno successivo.
Poi non ne aveva più saputo nulla.
Solo il giorno successivo, telefonando all'Ufficio assistenza del Comune di Bologna, Secci scoprì che suo figlio era ricoverato al reparto Rianimazione dell'ospedale Maggiore.
"Mi venne incontro un giovane medico, che con molta calma cercò di prepararmi alla visione che da lì a poco mi avrebbe fatto inorridire", ha scritto Secci, "la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. Solo dopo un po' mi ripresi e riuscii a dire solo poche e incoraggianti parole accolte da Sergio con l'evidente, espressa consapevolezza di chi, purtroppo teme di non poter subire le conseguenze di tutte le menomazioni e lacerazioni che tanto erano evidenti sul suo corpo".
Nel 1981 Torquato Secci diventò presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage.
La città si trasformò in una gigantesca macchina di soccorso e assistenza per le vittime, i sopravvissuti e i loro parenti.
I vigili del fuoco dirottarono sulla stazione un autobus, il numero 37, che si trasformò in un carro funebre.
E' lì che vennero deposti e coperti da lenzuola bianche i primi corpi estratti dalle macerie.
Alle 17,30, il presidente della Repubblica Sandro Pertini arrivò in elicottero all'aeroporto di Borgo Panigale e si precipitò all'ospedale Maggiore dove era stata allestita una delle tre camere mortuarie.
Per poche ore era circolata l'ipotesi che la strage fosse stata provocata dall'esplosione di una caldaia ma, quando il presidente arrivò a Bologna, era già stato trovato il cratere provocato da una bomba.
Incontrando i giornalisti Pertini non nasconse lo sgomento: "Signori, non ho parole" disse,"siamo di fronte all'impresa più criminale che sia avvenuta in Italia".
Ancora prima dei funerali, fissati per il 6 agosto, si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città.
Il giorno fissato per la cerimonia funebre nella basilica di San Petronio, si mescolano in piazza rabbia e dolore.
Solo 7 vittime ebbero il funerale di stato.
Il 17 agosto "l'Espresso" uscì con un numero speciale sulla strage. In copertina un quadro a cui Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: "Il sonno della ragione genera mostri". Guttuso ha solo aggiunto una data: 2 agosto 1980.
Cominciò una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana.