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giovedì 14 novembre 2013

Di Matteo deve morire.L’ULTIMO RICATTO DEL BOSS STANCO?

"Di Matteo deve morire. E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire", avrebbe detto Totò Riina  dopo l’ultima udienza del processo che sta cercando di indagare i segreti della trattativa (oscena)  fra Stato e mafia ai tempi delle stragi del 1992-93. 
"Quelli lì devono morire, fosse l’ultima cosa che faccio", ha urlato a un compagno di carcere. 


Nino Di Matteo nel giorno della commemorazione della strage di Via D'Amelio


don Luigi Ciotti
Di oggi la dichiarazione di don Ciotti: "Caro Nino Di Matteo, devi sapere che non sei solo, che tutti voi a Palermo, e in ogni angolo d`Italia, non sarete mai più soli. Dalla stagione delle stragi è cresciuta nel nostro paese la consapevolezza che la questione delle mafie non è solo di natura criminale."
Ma le parole di Riina, come sempre accade nelle parole di mafioso, nascondono e celano un messaggio criptato, un messaggio celato e indirizzato a qualcuno. E' quanto prova s spiegare Attilio Bolzoni nel suo articolo riportato sotto





L’ULTIMO RICATTO DEL BOSS STANCO (Attilio Bolzoni) 

La furia di Totò Riina non è soltanto furia. Sono parole che trasportano un messaggio disperato, molto obliquo. Apparentemente il suo bersaglio è il magistrato Nino Di Matteo, in realtà sta “parlando” con altri e per conto di altri. I suoi complici nelle stragi del 1992. Ha scaricato la sua rabbia contro il pubblico ministero del processo sulla trattativa fra Stato e mafia ma il vecchio boss di Corleone, che farà ottantatré anni sabato, tenta di giocare la sua ultima carta per non restare incastrato come unico responsabile delle bombe che hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Avvisa, esplode in modo inusuale per un capo della sua levatura, si scompone, si sfoga per avvertire che «ucciderà ancora», nella sostanza però si rivolge a chi l’ha trascinato nella tragica stagione stragista per poi seppellirlo per sempre in una tomba carceraria.


È forse il grido finale di Totò Riina, una sorta di estremo appello per condividere passato e responsabilità o — come sostiene qualcuno — per fermare chi sta facendo affiorare frammenti di verità su quei delitti eccellenti. Non è mai semplice decifrare i “ragionamenti” di un capo mafioso. Ma questa volta Totò Riina è rimasto nudo, si è scoperto fragile come mai prima — nei 21 anni di detenzione è stato un detenuto modello — proprio sul processo sulla cosiddetta trattativa, il suo nervo scoperto, la vicenda dove ha perso la faccia e il suo onore davanti al popolo mafioso.



Cosa voleva dire il boss di Corleone minacciando l’uccisione di Di Matteo e degli altri magistrati siciliani? Quale era il suo obiettivo, ben sapendo che ogni suo sospiro sarebbe stato intercettato dalle microspie che gli hanno inserito probabilmente anche fra i capelli? Voleva trasmettere coscientemente qualcosa fuori, all’esterno. Voleva far sapere che lui non vuole più “accollarsi” tutto il peso dei massacri di Capaci e di via D’Amelio. Questa è la prima ipotesi che si può avanzare sulla sceneggiata che è andata in onda in un braccio del carcere milanese di Opera.



L’altra ipotesi, molto più inquietante, la rilancia — con un linguaggio contorto — il solitamente prudente procuratore capo di Palermo Francesco Messineo che spiega: «Se così fosse nelle minacce di Totò Riina c’è una specie di copertura ideale per le azioni violente fatte da soggetti diversi da Cosa Nostra». Una «chiamata alle armi », dice poi il procuratore. Indirizzata a chi? Chi sono questi «soggetti diversi» o le «entità esterne» a Cosa Nostra cui allude il procuratore di Palermo?



Il punto centrale dello sfogo di Riina è proprio questo: a chi e perché sta mandando le sue minacce. Ha preso di mira un magistrato che da molti anni è immerso a indagare fra trame di mafia e di Stato. Un magistrato che dalla fine del 2010 è pedinato, spiato, intercettato, minacciato. Un magistrato che la scorsa estate è entrato nei santuari dei servizi segreti per cercare indizi su quel negoziato fra apparati e fazioni di Cosa Nostra al tempo delle stragi. È un caso, solo un caso che il boss abbia scelto lui come personaggio da colpire con le sue invettive? È un caso che abbia citato nel suo sproloquio — ben sapendo che sarebbe stato ascoltato — il pm della trattative? È un caso che abbia speso qualche parola anche per quell’altro magistrato — Roberto Scarpinato, il procuratore generale di Palermo, «che prima era a Caltanissetta e ora è tornato a Palermo e si dà troppo da fare» — che è uno di quei pubblici ministeri che fin dal 1992 insegue i fili delle contiguità tra «sistemi criminali italiani» e la mafia?

La sfuriata di Totò Riina è la lucida conseguenza di una tormentata riflessione su se stesso e sulla sua organizzazione criminale. Si è sentito fottuto per sempre. E ora lancia fuoco e fiamme. Per ricostruire questa vicenda dove Stato e mafia sono legati da indicibili accordi, dimentichiamo lo scontro dei pm di Palermo con il presidente della Repubblica su quelle quattro telefonate intercettate con l’ex presidente del Senato Nicola Mancino (sono state distrutte), dimentichiamo i contrasti istituzionali che ne sono seguiti. È tutto contorno, fuffa per non affrontare seriamente cosa è accaduto 21 anni fa giù in Sicilia. Chi alimenta quelle polemiche non vuole andare sino in fondo alla questione, chi ancora rivanga il duello Napolitano-pm di Palermo perde di vista il cuore del problema: la trattativa che c’è stata, le «convergenze di interessi» che hanno portato alle uccisioni di Falcone e Borsellino. Ma c’è chi fa ancora resistenza, chi ha interesse a confondere, a far finire nomi grossi a tutti i costi nell’arena.
Ma non è così. Non sono i nomi di “grido” quelli che richiama Totò Riina, non sono capi di Stato o fantomatiche potenze straniere quelle che vuole coinvolgere. Sono nomi più nascosti. E lui si è rivolto a loro. Solo a loro. Mettendo in un tritacarne un magistrato di Palermo che non sa più chi sono gli amici e chi sono i nemici, chi è che con lui e chi è contro di lui. 
La furia di Totò Riina è un ricatto, l’ultimo.

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