Questa mattina è stata inaugurata la COOPERATIVA SOCIALE "ROSARIO LIVATINO-LIBERA TERRA".
Erano presenti alla cerimonia Luigi Ciotti, Umberto Di Maggio, Davide Pati, i familiari di Livatino e Saetta, il vescovo di Naro
Rosario Livatino, "Il giudice ragazzino" secondo una definizione coniata da Francesco Cossiga, fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del
21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta
mentre - senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto - si recava in
Tribunale.
Grazie alla testimonianza di Pietro Ivano Nava, il rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, per la sua morte sono stati individuati i componenti del commando omicida e i mandanti . Tutti condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di giudizio, con pene ridotte per i "collaboranti".
Grazie alla testimonianza di Pietro Ivano Nava, il rappresentante di commercio che assistette casualmente all'omicidio, per la sua morte sono stati individuati i componenti del commando omicida e i mandanti . Tutti condannati all'ergastolo, in tre diversi processi e nei vari gradi di giudizio, con pene ridotte per i "collaboranti".
Come Sostituto Procuratore della
Repubblica al Tribunale di Agrigento, si occupò delle più delicate
indagini antimafia, di criminalità comune ma anche (nell'85) di quella che poi
negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu
proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo
un ministro dello Stato. Dal 21 agosto '89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino
prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della
speciale sezione misure di prevenzione.
La stele posta su una parete del un bene confiscato alla mafia a Naro in provincia di Agrigento dove ha sede la cooperativa
COSI' PAGA CHI AIUTA LO STATO'. La storia di Pietro Ivano Nava, il testimone dell'omicidio di Rosario Livatino
fonte La Repubblica 08 aprile 1992
Di Giuseppe D’Avanzo
(…) Era un venerdì caldo e senza
afa. Erano le nove del mattino. Pietro
Ivano Nava, agente di commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a
quattro chilometri da Agrigento.
Vide sul lato della strada una
Ford Fiesta rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un
ragazzotto con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta
scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una
pistola. Insegue Rosario Livatino.
Il "giudice ragazzino" di
Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando la fuga in un vallone
di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo braccherà come una bestia.
Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto, sparerà ancora - quattro volte -
per finirlo. Pietro Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene
l' assassino in faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: "Ho
visto l' assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo". E lo ha
riconosciuto davvero Domenico Pace, l' assassino."Non mi sento un eroe,
non mi sento una mosca bianca. Non sono né l' uno né l' altro. Sono un
cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario
Livatino. E lo Stato non è un' entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi
che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra
responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare?
Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato
educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego
nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel
telefono...". Pietro Ivano Nava è oggi un fantasma. Ha lasciato la casa di
Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto per dieci anni. E'
stato cancellato dai registri dell' anagrafe, dall' elenco telefonico, dal
ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia
romana, si è rifugiato su un' isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino
dell' Irpinia. E' emigrato in Olanda.
Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo. Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono.
Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".
Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un' altro Paese europeo. Dice: "La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all' improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono.
Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ' Dierre' di Villanova d' Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai". La lentezza dello Stato "Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ' Delli Cicchi-Nava' . E' stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un' altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un' esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ' pentito' della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ' pentito' e un testimone con un' immacolata fedina penale". E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: "Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po' di fiducia...".
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