Rocco Chinnici, un giudice che troppo aveva intuito e che per questo andava eliminato: “La mafia è tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere.”
"(...) Era la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Erano gli anni dei corleonesi di Liggio e dei padri della lotta alla mafia. Erano gli anni in cui uomini come Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Carlo Alberto dalla Chiesa ed altri stavano cercavano di sconvolgere il sistema che fino all’ora aveva vissuto sulla placida convivenza con la criminalità organizzata. Era l’epoca in cui si parlava della morte della vecchia mafia ma nessuno voleva parlare della nuova che in realtà altro non era che la stessa che cavalcava l’onda dei ‘piccioli’ e della crescita economica. Gli appalti, l’oro bianco, l’alta finanza.(...)"
L'efficacia del lavoro svolto dagli uffici istruttori di Palermo attraverso la sua direzione è testimoniata da una dichiarazione dell'epoca dello stesso Rocco Chinnici: "Un mio orgoglio particolare è la dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è diventato il centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature". Ma la risposta violenta di cosa nostra aveva già provocato le prime cosiddette "vittime eccellenti". A tale proposito così ebbe a dire Rocco Chinnici: "(...) anche se cammino con la scorta, so che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. per un magistrato come me è normale consdiderarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non mpedisce, nè a me nè ad altri giudici, d continuare a lavorare. Ma Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai"
Rocco Chinnici venne assassinato alle 8 del mattino del 29 luglio 1983 quando una Fiat 126 verde, imbottita con 75 kg di esplosivo parcheggiata davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, devasto’ la sua vita, quella del maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi e dell'appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta e del portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi . Ad azionare il telecomando che provocò l'esplosione fu Antonino Madonia, boss di Resuttana, che si trovava nascosto nel cassone di un furgone parcheggiato nelle vicinanze. Sulle sue orme continueranno il loro impegno nella lotta alla mafia due giovani magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che lo avrebbero seguito nello stesso destino, fatto di lotta, di isolamento e di morte violenta provocata da esplosivo per mano di cosa nostra.
Fonte: Antimafiaduemila
Rocco Chinnici, un giudice che troppo aveva intuito
di Francesca Mondin - 28 luglio 2015
da destra: Ninni Cassarà, Giovanni Falcone, Rocco Chinnici |
Era la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80.
Erano gli anni dei corleonesi di Liggio e dei padri della lotta alla mafia. Erano gli anni in cui uomini come Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Carlo Alberto dalla Chiesa ed altri stavano cercavano di sconvolgere il sistema che fino all’ora aveva vissuto sulla placida convivenza con la criminalità organizzata. Era l’epoca in cui si parlava della morte della vecchia mafia ma nessuno voleva parlare della nuova che in realtà altro non era che la stessa che cavalcava l’onda dei ‘piccioli’ e della crescita economica. Gli appalti, l’oro bianco, l’alta finanza.
Era l’inizio della lunga lista di padri e madri della patria abbandonati sul campo di battaglia e mandati a morte sotto i feroci colpi della mafia. Nel giro di pochi anni, infatti, Cosa nostra aveva messo a punto una vera e propria mattanza di servitori dello Stato e giornalisti.
Era il 1983. Venerdì 29 luglio, ore 8.05. Il capo dell’ufficio istruzione di Palermo Rocco Chinnici saluta il portinaio del condominio in cui abita. Via Federico Pipitone avvolta dal caldo torrido di fine luglio e dagli odori e rumori palermitani è sempre la solita. Chinnici esce di casa. Un uomo preme un pulsante. Un boato. Un istante lungo un sospiro e la via si trasforma nell’inferno. Sirene spiegate, ambulanze, urla, macerie, vetri e mura frantumate, un immenso cratere profondo e nero ha preso il
posto della macchina del giudice. La mafia aveva colpito ancora, e lo aveva fatto nel modo più vigliacco e sensazionale che poteva. Un' autobomba, la prima di una lunga serie, aveva spazzato via Rocco Chinnici, i due agenti della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio del condominio Stefano Li Sacchi.
la strage |
Zeroprobabilità di errore perché questo giudice testardo che aveva intuito troppe cose andava cancellato.
Cosa aveva capito Rocco Chinnici di tanto fastidioso?
La grandezza di Chinnici fu anche nel cercare di potenziare e rendere efficaci gli strumenti per la lotta alla mafia. Il giudice aveva capito l’importanza di lavorare in équipe e aveva gettato le basi per il futuro pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto: “Ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. - racconta Paolo Borsellino in un suo scritto - Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur
Chinnici può essere considerato per molti aspetti il precursore della lotta antimafia portata avanti poi dal pool antimafia e da Falcone e Borsellino, fu lui a creare l’embrione del primo maxi processo con il procedimento allora detto “dei 162”. Fu tra i primi a capire che bisognava cercare tutte le interconnessioni tra i grandi delitti compiuti dalla mafia per studiare unitariamente l’intero fenomeno mafioso. Così come era convinto che unitamente, dai vari componenti dello Stato, andava combattuta la criminalità organizzata. Infatti, scrive il giudice Borsellino: “Non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sradicamento”.
Nel mirino investigativo del giudice erano finiti i cugini Salvo, all’epoca i veri padroni della Sicilia imprenditoriale. Nino Di Matteo che nel 1996 si occupò a Caltanissetta dell'indagine sull'attentato a Chinnici nel libro Collusi scrive: “Le parole di Brusca (collaboratore di giustizia che parlò del coinvolgimento dei Salvo nell’attentato, ndr) e i numerosi riscontri emersi nel processo non lasciano spazio a interpretazioni: questa volta, Cosa Nostra aveva agito su input di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa.” I cugini Salvo, scrive ancora Di Matteo, “avevano potuto chiedere e ottenere un omicidio eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante di contatto e penetrazione del potere politico nazionale”.
I processi per il delitto Chinnici sono stati numerosi e come sempre l’iter giudiziario è stato piuttosto lungo e complesso.
Soltanto il 24 giugno 2002 la Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato 16 condanne (12 ergastoli e quattro condanne a 18 anni di reclusione) per alcuni fra i più importanti affiliati di Cosa nostra.
La sentenza ha dato ragione alla tesi dell’accusa secondo cui l’omicidio di Rocco Chinnici fu chiesta dagli “esattori” Nino e Ignazio Salvo (entrambi deceduti, il primo per malattia, il secondo ucciso nel 1992).
Secondo alcuni pentiti il terzo processo d’appello, celebrato a Messina nel 1988, dopo due annullamenti della Cassazione, avrebbe subito degli ‘aggiustamenti’ per arrivare all’assoluzione, per insufficienza di prove, dei mandanti Michele e Salvatore Greco, e di Pietro Scarpisi e Vincenzo Morabito come esecutori. Secondo quanto dissero all’epoca i collaboratori di giustizia in questione, infatti, la mafia avrebbe corrotto l’allora presidente della corte d’Assise, Giuseppe Recupero, accusato di aver preso 200 milioni. Il fascicolo venne trasmesso nuovamente a Palermo nell’estate del ’98 dal gup di Reggio Calabria, dichiaratosi “incompetente’’ a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in mafia e corruzione di quest’ultimo. Il caso però finì nel dimenticatoio per poi tornare fortuitamente alla luce per la scoperta di due giornalisti che stavano lavorando al libro “Così non si può vivere” edito da Castelvecchi. L’inchiesta sul “fascicolo scomparso” venne quindi affidata al procuratore aggiunto Vittorio Teresi per poi essere archiviata lo scorso anno. Sulla vicenda sono tornati 15 senatori del Movimento 5 stelle che, alla vigilia del 32/esimo anniversario della strage hanno presentato un'interrogazione presentato al ministro della Giustizia.
In questi trentadue anni ci sono state molte iniziative della società civile per chiedere verità e giustizia, per manifestare il rifiuto al malaffare mafioso. Iniziative fondamentali per quel processo di sradicamento di cui parlava il giudice che però trova la sua realizzazione in una nuova coscienza critica che guidando l’azione individuale supera l’eccezionalità dell’evento o
Paolo Borsellino porta la bara di Rocco Chinnici |