In Calabria sta avvenendo un fenomeno che potrebbe avere esiti importanti nella battaglia culturale contro le mafie: donne-ribelli, citate da Francesco La Licata nell'articolo "La metamorfosi delle spose mafiose", nel tentativo di salvare i figli maschi da un destino che appare quasi sempre "segnato" (carcere o bara!), decidono di scappare dal mondo mafioso.
Esattamente quanto fece Rita Atria, la ragazzina siciliana testimone di giustizia a cui abbiamo intitolato il nostro presidio: pur essendo nata in una famiglia mafiosa, Rita Atria scelse di denunciare per tentare di “cambiare”, lei per prima, il mondo nel quale era nata e che la soffocava.
Dopo la strage di via D’Amelio nella quale, fra gli altri, venne ucciso Paolo Borsellino, divenuto "padre putativo" di Rita, Rita Atria scriverà nel suo diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale: ““(…) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”
Francesco La Licata lancia così una sorta di appello: "(...) Queste «eroine» oggi non hanno cittadinanza: stanno in un mondo di mezzo, senza poter contare nell’aiuto dello Stato perché non hanno altro da offrire se non la volontà di cambiare. Bisogna aiutarle, bisogna intervenire perché rappresentano una grande opportunità per la società civile(...)"
Una di queste donne-ribelli si racconta nell'articolo di N. Zancan: L’inferno vuoto delle donne infuga dalla ’ndrangheta : "Vivo nel limbo: niente auto, gite per i figli, viaggi..."
Esattamente quanto fece Rita Atria, la ragazzina siciliana testimone di giustizia a cui abbiamo intitolato il nostro presidio: pur essendo nata in una famiglia mafiosa, Rita Atria scelse di denunciare per tentare di “cambiare”, lei per prima, il mondo nel quale era nata e che la soffocava.
Dopo la strage di via D’Amelio nella quale, fra gli altri, venne ucciso Paolo Borsellino, divenuto "padre putativo" di Rita, Rita Atria scriverà nel suo diario le parole che costituiscono il suo testamento spirituale: ““(…) Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci”
Francesco La Licata lancia così una sorta di appello: "(...) Queste «eroine» oggi non hanno cittadinanza: stanno in un mondo di mezzo, senza poter contare nell’aiuto dello Stato perché non hanno altro da offrire se non la volontà di cambiare. Bisogna aiutarle, bisogna intervenire perché rappresentano una grande opportunità per la società civile(...)"
Fonte: La Stampa
La metamorfosi delle spose mafiose: da sfingi silenti a madri coraggio
La sottocultura mafiosa, in qualunque parte dei
territori si sia estrinsecata, ha sempre trovato solido appoggio
dentro l’universo femminile. Per anni, per decenni, i riti tribali
delle cosche sono stati monopolizzati dalla gretta grossolanità
mascolina, ma sono stati «sigillati» e tramandati dalle «custodi»
della tradizione: le mamme e le mogli che, con il loro silenzio, o
intendevano tutelare e promuovere l’avanzata «sociale» (sempre
nel mondo mafioso) di figli e mariti, oppure sceglievano di «salvare
il salvabile» cioè i familiari maschi sopravvissuti alle faide e al
regolamento di conti. Un ruolo fondamentale per il mantenimento, per
la conservazione della famiglia, quella di sangue e quella mafiosa
che non raramente coincidevano.
Nel corso dei decenni abbiamo, spesso, constatato
quanto difficile sia stato penetrare dentro i segreti delle
«famiglie», grazie anche alla scelta di campo operata da donne che
preferivano la legge criminale a quella dello Stato. Poi, come
vedremo, col trascorrere del tempo e con lo scorrere del sangue,
abbiamo assistito ad una sorta di mutazione che ha portato il mondo
delle donne di mafia a dividersi. Da una parte le femmine
ostinatamente legate alla «tradizione», dall’altra quelle che
aprivano gli occhi e la mente alla possibilità di poter scegliere un
altro modo di vivere e di pensare, ma sempre con l’idea di fare la
cosa giusta in direzione del salvataggio dei figli maschi,
strappandoli al destino già scritto che li collocava o in carcere o
dentro una bara.
Oggi, infine, sembra insorgere l’ultima
generazione di «femmine ribelli» (per usare una definizione di
Lirio Abbate) che, pur non avendo notizie, conoscenze, segreti da
offrire allo Stato in cambio dell’assistenza necessaria a «passare
dall’altra parte», sembra determinata ad abbandonare il mondo
della violenza per strappare alle mafie il bacino di manovalanza
criminale rappresentato dai figli maschi. Queste «eroine» oggi
non hanno cittadinanza: stanno in un mondo di mezzo, senza poter
contare nell’aiuto dello Stato perché non hanno altro da offrire
se non la volontà di cambiare. Bisogna aiutarle, bisogna intervenire
perché rappresentano una grande opportunità per la società civile.
La storia ci insegna che le mafie, in quanto società chiuse, possono
essere scardinate solo dall’interno. E quale migliore grimaldello,
se non la «fuga» verso il meglio di tante madri accompagnate dai
loro figli? Diventerebbe superfluo persino l’intervento della
magistratura che, nei casi più cruenti, arriva a negare ai genitori
responsabilità genitoriale sui figli minori.
È cambiato l’universo delle mafie. In Sicilia e
anche in Calabria dove il legame familiare e familistico si è
rivelato sempre l’ostacolo maggiore nella battaglia contro le
cosche. È trascorso più di mezzo secolo da quando le madri
indossavano il lutto in età giovane e lo tenevano fino alla morte.
Agata Barresi era la moglie di un mezzo mafioso, madre di cinque
figli maschi. Glieli uccisero uno dopo l’altro e assassinarono, per
una overdose di odio, anche il figlio illegittimo che il marito aveva
avuto da un’altra relazione. Lei non aprì mai bocca, eppure
conosceva perfettamente il nome del mandante della strage. Omertà?
Paura? Oppure semplicemente lo sbaglio di ritenere di poter fermare,
col silenzio, la mano assassina. Altre donne furono protagoniste in
negativo: le donne di Enzo Buffa, in procinto di pentirsi, fecero
irruzione nell’aula del maxiprocesso di Palermo per impedire che il
proprio congiunto divenisse collaboratore di giustizia. E riuscirono
nell’impresa, perché Buffa cambiò idea.
Serafina Battaglia intervistata da Mauro De Mauro |
Certo, c’era qualche eccezione, anche allora.
Serafina Battaglia denunciò gli assassini del marito e del
figlio, ma perse la sua battaglia. Fu protagonista di una
drammatica testimonianza in corte d’Assise ma non bastò, i giudici
considerarono «insufficiente» il gesto della donna per arrivare a
una condanna. Erano altri tempi e la donna non aveva un grande peso:
nè dentro la mafia nè nella società civile. Era il tempo in cui il
reato di associazione mafiosa veniva ritenuto inapplicabile per una
donna, perché - in quanto donna - non sarebbe stata in grado di
essere mafiosa. Tutto questo mentre Antonietta Bagarella, futura
moglie di Totò Riina, si presentava spavaldamente in Tribunale per
rivendicare la «bontà» del fidanzato, definendolo «il migliore
degli uomini».
Lea Garofalo |
La svolta arriverà col pentitismo. La storia di
questo fenomeno testimonia quale importanza abbiano avuto le donne
nel cambiamento. Basterebbe la tragica storia di Lea Garofalo,
vittima del marito ndranghetista ma salvatrice della figlia, per
esaltare l’eroismo di tante altre donne. Fu Cristina, terza
moglie di Tommaso Buscetta, a dare forza al marito nella scelta di
collaborare con lo Stato per strappare i figli più piccoli al
fascino di Cosa nostra. E Carmela Iuculano fa la stessa cosa quando
ascolta lo sfogo delle sue figliolette, Daniela e Serena, che le
chiedono conto e ragione del perché a scuola debbano subire
l’ostracismo dei compagni. Carmela abbandona il marito, prende i
figli e scompare. Come farà, dopo, anche Giusy Vitale, la prima
donna accettata dalla mafia come «sostituta» del fratello
capomandamento. Qualcuno, come Rita Atria, la sua scelta di
fuggire dalla mafia l’ha pagata con la vita: suicida nel suo
nascondiglio romano, per il dolore di aver perso il suo padre
putativo Paolo Borsellino.
Queste storie dicono solo che
bisogna prendere come opportunità la spinta che arriva oggi dalla
Calabria.
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