Il dovere della Memoria impone la filessione su un uomo come Pier Paolo Pasolini, ucciso la notte del 2 novembre 1975 sulla spiaggia dell'Idroscalo di Ostia.
"L'intellettuale scomodo", dalle mille contradizioni, pure colui che in maniera "eretica" analizza e predice la condizione di degrado -civile e morale- a cui la società italiana si andava incamminando. Ancora oggi appaiono drammaticamente profetiche le sue analisi: sui falsi miti della modernità; sul nascente fenomeno del "consumismo"; sul decadimento dei valori e dei legami affettivi delle comunità; sulla trasformazione
“antropologica” che gli italiani parevano subire, aderendo a modelli di cui oggi avvertiamo -con colpevole ritardo- la vacuità e
la insostenibilità.
Riproponiamo l'ultima intervista di Pier Paolo Pasolini rilasciata a Furio Colombo. Fra le tante cose su cui Pasolini rilfette in quella intervista ci colpisce una, che di certo non è la più importante: "(...)Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per
abbattere quel padrone senza diventare quel padrone.
Ancora una volta, per l'ultima volta, Pasolini appare "profetico" quando oggi vediamo coloro che hanno costruito carriere e privilegi personali ( o di casta) fingendosi difensori dei deboli, paladini di legalità o di buona politica.
Ancora una volta, per l'ultima volta, Pasolini appare "profetico" anche con se stesso: "(...) Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo".
Ancora una volta, per l'ultima volta, Pasolini appare "profetico" anche con se stesso: "(...) Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo".
Per lui, a noi, parlano ancora i suoi libri, i sui film, le sue parole.
Furio Colombo: "Questa intervista ha avuto luogo sabato 1° novembre (1975), fra le 4 e le 6
del pomeriggio, poche ore prima che Pasolini venisse assassinato. Voglio
precisare che il titolo dell’incontro che appare in questa pagina è
suo, non mio. Infatti alla fine della conversazione che spesso, come in
passato, ci ha trovati con persuasioni e punti di vista diversi, gli ho
chiesto se voleva dare un titolo alla sua intervista.
Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».
Ci ha pensato un po’, ha detto che non aveva importanza, ha cambiato discorso, poi qualcosa ci ha riportati sull’argomento di fondo che appare continuamente nelle risposte che seguono. «Ecco il seme, il senso di tutto – ha detto – Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti. Metti questo titolo, se vuoi: “Perché siamo tutti in pericolo”».
"Perché siamo tutti in
pericolo"
Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti,
molte versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro
tante cose, istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno
complicato il discorso io dirò «la situazione», e tu sai che intendo
parlare della scena contro cui, in generale ti batti. Ora ti faccio
questa obiezione. La «situazione» con tutti i mali che tu dici, contiene
tutto ciò che ti consente di essere Pasolini. Voglio dire: tuo è il
merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono della
«situazione». Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti.
Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto
scompare. Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza
mezzi? Intendo mezzi espressivi, intendo…
Sì, ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci
credo. Non in senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo
stesso chiodo può persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio
ce lo danno i radicali, quattro gatti che arrivano a smuovere la
coscienza di un Paese (e tu sai che non sono sempre d’accordo con loro,
ma proprio adesso sto per partire, per andare al loro congresso). In
grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è sempre stato un gesto
essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi
che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i
cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare
deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto,
«assurdo» non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di
buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in
cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria
amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me
quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora
nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione.
Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava,
una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando
sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha
mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu
dici, «la situazione», e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E
in che modo.
Ecco, descrivi allora la «situazione». Tu
sai benissimo che i tuoi interventi e il tuo linguaggio hanno un po’
l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine bella ma si
può anche vedere (o capire) poco.
Grazie per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno.
Pretendo che tu ti guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la
tragedia? La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono
strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli
intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di
dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non
passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il
macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto.
Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di
confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a
parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E
facile, è semplice, è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi
ci organizzeremo e faremo fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo
so che quando trasmettono in televisione Parigi brucia tutti sono lì con
le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta,
bella, pulita (un frutto del tempo è che «lava» le cose, come la
facciata delle case). Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul
sangue, il dolore, la fatica che anche allora la gente ha pagato per
«scegliere». Quando stai con la faccia schiacciata contro quell’ora,
quel minuto della storia, scegliere è sempre una tragedia. Però,
ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò, il nazista delle
SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della coscienza, riesce a
respingerlo, anche dalla sua vita interiore (dove la rivoluzione sempre
comincia).
Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è
gentile, garbato, e «collabora» (mettiamo alla televisione) sia per
campare sia perché non è mica un delitto. L’altro – o gli altri, i
gruppi – ti vengono incontro o addosso – con i loro ricatti ideologici,
con le loro ammonizioni, le loro prediche, i loro anatemi e tu senti che
sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li
separa dal «potere»?
Che cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
Il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e
soggiogatori. Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma
tutti, dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco
perché tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo.
Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa
uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la
mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi
hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù.
Sono assassino e sono buono.
Ti hanno accusato di non distinguere politicamente e
ideologicamente, di avere perso il segno della differenza profonda che
deve pur esserci fra fascisti e non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai
mai visto quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché
hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi
pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco io vedo così la
bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle
intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là.
Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete di parlarmi del mare
mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso. Qui c’è la
voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un
fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me
se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le
pecore nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a
Moravia: con la vita che faccio io pago un prezzo… È come uno che
scende all’inferno. Ma quando torno – se torno – ho visto altre cose,
più cose. Non dico che dovete credermi. Dico che dovete sempre cambiare
discorso per non affrontare la verità.
E qual è la verità?
Mi dispiace avere usato questa parola. Volevo dire «evidenza». Fammi
rimettere le cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune,
obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere
tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e
cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe.
Allora una prima divisione, classica, è «stare con i deboli». Ma io dico
che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti sono vittime. E
tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro.
Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere,
distruggere.
Allora fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente
abolisci tutto. Ma tu vivi di libri, e hai bisogno di intelligenze che
leggono. Dunque, consumatori educati del prodotto intellettuale. Tu fai
del cinema e hai bisogno non solo di grandi platee disponibili (infatti
hai in genere molto successo popolare, cioè sei «consumato» avidamente
dal tuo pubblico) ma anche di una grande macchina tecnica,
organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo, con
una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese,
che cosa ti resta?
A me resta tutto, cioè me stesso, essere vivo, essere al mondo,
vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di raccontare le storie, di
ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare il teatro dei
burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa, colti
come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa
nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di
amministrazione, né la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che
molti di noi sognavano (ripeto: leggere l’orario ferroviario dell’anno
prima, ma in questo caso diciamo pure di tanti anni prima) c’era il
padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli colavano dalle tasche e
la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi pargoli. Il bel
mondo di Brecht, insomma.
Come dire che hai nostalgia di quel mondo.
No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per
abbattere quel padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano
esclusi da tutto nessuno li aveva colonizzati. Io ho paura di questi
negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono
tutto a qualunque costo. Questa cupa ostinazione alla violenza totale
non lascia più vedere «di che segno sei». Chiunque sia portato in fin di
vita all’ospedale ha più interesse – se ha ancora un soffio di vita –
in quel che gli diranno i dottori sulla sua possibilità di vivere che in
quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica del delitto. Bada
bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi interessa
ormai la catena causa effetto, prima loro, prima lui, o chi è il
capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la
«situazione». È come quando in una città piove e si sono ingorgati i
tombini. l’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la
furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per
una ragione qualsiasi non scende ma sale. È la stessa acqua piovana di
tante poesiole infantili e delle musichette del «cantando sotto la
pioggia». Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non
perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo
dove si sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti
annegati.
E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici.
Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola
dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più
grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia
lanciato una boutade (eppure non credo) Ditemi voi una altra cosa.
S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente
oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa.
S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella
storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso
potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che
so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai denti: io scendo all’inferno
e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti.
L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua
giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il
suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è
generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa
di chi ha, come dire, toccato «la vita violenta». Non vi illudete. E voi
siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali,
voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato
sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete
tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella
etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della
cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova
pace fabbricando scaffali.
Ma abolire deve per forza dire creare, se non sei un
distruttore anche tu. I libri per esempio, che fine fanno? Non voglio
fare la parte di chi si angoscia più per la cultura che per la gente. Ma
questa gente salvata, nella tua visione di un mondo diverso, non può
essere più primitiva (questa è un’accusa frequente che ti viene rivolta)
e se non vogliamo usare la repressione «più avanzata»…
Che mi fa rabbrividire.
Se non vogliamo usare frasi fatte, una
indicazione ci deve pur essere. Per esempio, nella fantascienza, come
nel nazismo, si bruciano sempre i libri come gesto iniziale di
sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come animi il tuo
presepio?
Credo di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio
linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e
disperato quanto drastica e disperata è la situazione. Quello che
impedisce un vero dibattito con Moravia ma soprattutto con Firpo, per
esempio, è che sembriamo persone che non vedono la stessa scena, che non
conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le stesse voci. Per voi
una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e
intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio
di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un
fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte
le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da
qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la
salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato?
Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà fare non solo
quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le
loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che
Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i
sociologi. E gli esperti di tutti i generi.
Perché pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
Non vorrei parlare più di me, forse ho detto fin troppo. Lo sanno
tutti che io le mie esperienze le pago di persona. Ma ci sono anche i
miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a
dire che siamo tutti in pericolo.
Pasolini, se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di evitare il pericolo e il rischio?
È diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa
difficile prendere appunti. Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede
di lasciargli le domande. «Ci sono punti che mi sembrano un po’ troppo
assoluti. Fammi pensare, fammeli rivedere. E poi dammi il tempo di
trovare una conclusione. Ho una cosa in mente per rispondere alla tua
domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti lascio le note che
aggiungo per domani mattina».
Il giorno dopo, domenica, il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini era all’obitorio della polizia.
L'omaggio di Nanni Moretti a Pasolini, tratto dal film "Caro Diario":
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