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lunedì 29 giugno 2015

La Bellezza: principio morale a fondamento di una Democrazia autentica.

L'amico Giorgio Canal mi ha chiesto di introdurre il primo incontro del “cammino” chiamato Human Factor. Si vuole provare a riflettere sul principio della Bellezza posto in relazione alla crisi che viviamo: una crisi strutturale, economica, sociale, morale. Ho accettato volentieri l’invito anche per il fatto che, in rappresentanza del presidio LIBERA “Rita Atria” Pinerolo, ci è cara la figura di Peppino Impastato, autore della frase riportata nella presentazione all'incontro stesso: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità (...) È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore ". Nella fotografia, una vista di Noto.
In questa frase Peppino Impastato pone in relazione diretta il principio della Bellezza con le condizioni di vita di una comunità. Comunità schiacciate dalla cultura mafiosa, dal pensiero mafioso, oppure comunità assuefatte -dall'ignoranza e dalla “convenienza”- ad uno degli aspetti più evidenti che avevano preso corpo in italia a partire dalla fine degli anni '50: la speculazione edilizia, la devastazione del paesaggio italiano. La Letteratura stessa ci consegna una delle domande più inquietanti sulla condizione umana facendo proprio riferimento alla Bellezza. In uno dei capolavori di Fedor Dostoevskij, “ L'Idiota”, un personaggio minore rivolge al principe Myskin ( l'Idiota) la celebre frase : “E' vero principe che un giorno avete detto che la bellezza salverà il mondo?:..” Ma neppure Dostoevskij scioglie l'enigma: nel romanzo, né il principe Myskin né altri offriranno una risposta chiara e diretta.
Se nessuno può affermare con certezza che la Bellezza salverà il mondo, tuttavia possiamo riflettere a partire dal fatto che il principio della Bellezza, il tentativo di una sua formale concretizzazione, ha guidato da sempre l'agire dell’Umanità: quella che chiamiamo Arte, nelle sue varie forme ed espressioni, è un fenomeno presente in tutte le culture e non è altro che il “tentativo umano” di creare qualcosa che sia accostabile alla Bellezza della Natura e, poiché “umano”, da quella se ne distingua. Tentativi “umani”, quelli dell’Arte, spesso ispirati dallo “spirito superiore”, la religione, altro elemento presente nelle culture di ogni tempo. Quel che ci preme anticipare è che, a nostro parere, il principio della Bellezza impone il rispetto di altri princìpi.

La Bellezza della Polis greca: Estetica-est-Etica!
Riferimento obbligato di questa riflessione diviene allora l'Età d'Oro dell'antica Grecia, Atene, considerata “culla” del mondo occidentale. In quel luogo e in quel tempo, molti dei concetti su cui si fonda la nostra cultura, e coi i quali si indagano ancor oggi il pensiero e l'agire dell'uomo, hanno trovato i primi canoni, le prime definizioni. Per alcuni filosofi dell'antica Grecia, fra i diversi princìpi quello della Bellezza, l'Estetica, era così importante da sopravanzare addirittura l'Etica, poiché “la conteneva”! Così come il concetto stesso di Principio è più importante della Regola-Legge poiché rispetto a quella ha una “eccedenza deontologica”. Esempio: il principio proclama che la Vita umana è sacra e inviolabile; la regola-legge stabilisce il prezzo da pagare se si viola quel principio.
Il riferimento all'antica Grecia è ancor più doveroso se pensiamo che in quel luogo sono nate due parole fondamentali per la storia occidentale: la parola politica ( da polis, la città) e la parola democrazia (il governo del popolo). La forma stessa della città-polis, i luoghi che costituivano l'organismo della città, scandivano poi anche i diversi momenti della vita democratica: l'Oikos ( la casa) era il luogo delle attività e dei commerci privati; l'Eklesia ( da cui deriva il termine chiesa) era l'assemblea pubblica dei cittadini nel cui ambito venivano discussi i problemi della comunità; l'Agorà ( la piazza) il luogo fisico ove la cittadinanza si riuniva e dove il consiglio degli eletti, Boulè, aveva il compito di esaminare problemi, privati e pubblici, mediando e riconducendo il tutto a regole-leggi che tendessero a soddisfare il bene della comunità intera, l'interesse pubblico; Il teatro, dove si rifletteva sui moti del'animo umano, sui miti religiosi, ma dove si mettevano anche alla berlina usi, costumi e personaggi dell'epoca.
Possiamo affermare che i luoghi della Polis realizzavano un principio di Bellezza estetica che corrispondeva alla “bellezza” etica della vita di cittadini retti da un sistema democratico. In realtà, sappiamo bene che quella era una democrazia “imperfetta”, poiché solo i cittadini maschi, maggiorenni e agiati, godevano dei diritti propri della forma democratica. Ma quella prima forma rimane, lo ripetiamo, il riferimento imprescindibile di tutta la “battaglia”, lunga, dolorosa e ancora in atto, per giungere al compimento pieno del concetto di Democrazia: il tentativo di trasferire “il potere”, il potere di decidere e di agire a favore della comunità, dalle mani del Potente alle mani del Popolo. E rimane imprescindibile la funzione dell’Agorà, il luogo ove attraverso le determinazioni del Consiglio degli eletti, giova ripeterlo, l’interesse dei privati veniva mediato e condotto ad un interesse superiore, al “bene pubblico”.

Il paese “artificiale”: dal “sogno di un principe” alla Repubblica
L'Italia viene spesso considerato erede ideale di quella cultura della Bellezza che, come detto prima, trova i suoi riferimenti nell'Età d'Oro della antica Grecia.
Vorremmo partire da un fatto fondamentale, spesso sottovalutato: anche nei secoli che precedettero la sua unificazione politica, l'Italia veniva considerata dagli altri stati europei un paese particolare e “unico”, con le sue peculiarità, ricchezze paesaggistiche, tradizioni storico-culturali che stimolavano espressioni di “arti e mestieri”. Questi elementi differenziavano il nostro paese dalle altre nazioni europee tanto che, sino all'Ottocento, il cosiddetto “viaggio in Italia” era ritenuto momento formativo indispensabile per intellettuali e artisti di tutto l'Occidente. Per i popoli europei quella terra chiamata Italia era “unica”, unitaria!, ancor prima che i suoi abitanti si sentissero tali: italiani e uniti!
Occorre sottolineare un altro elemento: il Paesaggio come oggi lo consideriamo, il territorio e i luoghi abitati, non è un elemento “naturale”! Non è “dono della Natura” il paesaggio della Toscana o quello delle nostre Langhe; non era “naturale” la campagna veneta del Palladio; non era “naturale” la Pianura Padana che accoglieva le tante popolazioni del nord Italia, spesso in lotta fra di loro; non era “naturale” la Conca d'Oro che cingeva Palermo. Meno che mai, ovviamente, erano “naturali” le nostre città, i borghi, simboli della Bellezza paesaggistica italiana e grembo di tante opere dell'arte e dell'ingegno di un popolo che da quelle cose “artificiali” traeva stimoli, conoscenza, “senso estetico”: sentimenti capaci di dare vita ad un ideale di Bellezza “unica e peculiare”. L'“artificiosità” del Paesaggio Italiano era frutto di un’opera di trasformazione durata secoli, condotta da generazioni di comunità le quali, per rendere accoglienti e abitabili i luoghi ove vivevano, per conquistare terre da coltivare strappandole a paludi e acquitrini, per tracciare strade necessarie ai commerci e alle comunicazioni, avevano dovuto incessantemente modificare, trasformare, l'habitat naturale. Ma cosa mirabile era che queste trasformazioni avvenivano quasi sempre rispettando un principio “superiore” che oggi chiameremmo “interesse pubblico”; e quelle trasformazioni sono state tanto più evidenti ed organiche in relazione proporzionale alla qualità politica del “potere dominante” dell'epoca. Il Paesaggio è pertanto il risultato del pensiero e della conseguente “azione politica” di una comunità.
Permettetemi di riprendere quanto ho avuto modo di scrivere in passato: “(...) Occorrerebbe riflettere su quanto decoro, sapienza urbanistica e valore architettonico d’insieme, esprimano tanti borghi, paesi e cittadine di ogni regione italiana, anche quelli sorti in luoghi nei quali il retaggio della povertà economica ne costituiva tratto essenziale. In quei luoghi, oscuri artigiani dell’architettura e dell’urbanistica avevano “disegnato” e costruito assecondando proprio “il genius loci”, la vocazione dei luoghi di cui parlavo prima. Borghi, paesi e cittadine che tante volte oggi ritroviamo offesi in paesaggi sviliti, oltraggiati da “cose-case” oscene o informi periferie, frutto di volontà, cultura e valori davvero diversi da quelle che -per secoli- ne avevano animato la crescita lenta, organica, meditata e “sostenibile” (come diremmo ora dall’alto della nostra presunta modernità culturale)”.
Non era solo una questione di estetica, era anche di etica: il senso di armonia e di decoro delle città e dei borghi italiani, contribuiva a costituire un elemento di riconoscimento, di appartenenza, nei confronti del luogo stesso ed erano il fondamento di quello che oggi potremmo definire il principio (etico) di cittadinanza. Da questo derivava l'assunzione di responsabilità delle comunità nei confronti del luogo-territorio nel quale si viveva. Amore e attaccamento nei confronti dei luoghi ponevano in secondo piano addirittura un fatto “paradossale”: spesso, le città e i borghi che costituiscono l'immagine-simbolo dell'Italia sono frutto del “sogno di un principe”! Ma se il “sogno del principe” aveva come scopo la costruzione di luoghi, edifici e opere d'arte che dovevano esprimere la sua magnificenza, quelle stesse opere costituivano anche la valorizzazione e l'esaltazione di peculiarità, ricchezze artistiche e culturali, proprie del territorio medesimo. Non è quindi un caso se l'Italia, unita e repubblicana, e prima nazione al mondo, introduca addirittura nei Principi fondamentali della Costituzione Italiana concetti di una modernità assoluta che altro non sono se non la “summa” della sua tradizione storica. Così si proclama all’art. 9 :La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Secondo i padri costituenti, la Bellezza dell’Italia, la sua tutela e salvaguardia diventavano fondamento, espressione, dei valori etici e morali della Repubblica.

La perdita della Bellezza e le "sentinelle" inascoltate
Il lungo e organico “modus-operandi” che aveva dato vita al Paesaggio Italiano subisce una interruzione “drammatica” nel corso del secondo dopoguerra quando, a tappe forzate e forzose, grazie anche agli ingenti aiuti del “Piano Marshall”, l'Italia si trasforma da paese prevalentemente agricolo in paese industriale. Milioni di donne e uomini provenienti dalle aree rurali si riversano nelle città della “ricostruzione”. Donne e uomini a cui viene fatto balenare il miraggio di un benessere finalmente “a portata di mano”, da conquistare e raggiungere abbandonando “la povertà secolare delle campagne”, godendo del “benessere della modernità” grazie al lavoro operoso nelle nuove fabbriche, nelle nascenti attività economiche e nel “terziario”. Sono gli anni del cosiddetto boom economico: la Lira vince l'Oscar delle monete e il PIL, la grandezza economica che tutti impareremo a conoscere, viaggia a percentuali di crescita “favolose”!
I segni del cambiamento in atto si evidenziano nella trasformazione accelerata che proprio gli organismi urbani subisco: all'abbandono dei paesi, degli antichi borghi, fa da contraltare la crescita tumultuosa delle città che, accanto ai nuclei storici, vedono sorgere rapide e spesso caotiche “addizioni” urbane che cambiano profondamente l'immagine di tanti luoghi. L'edificazione, l'abitare, muta di carattere e di significato: da naturale soddisfacimento di un bisogno abitativo si trasforma in “speculazione edilizia”, gestita e guidata da attori che troppe volte hanno disegni e ideali ben diversi dai “principi” del passato. Il sentimento di appartenenza ad un luogo-paese viene spezzato dalle migrazioni interne e diventa “spaesamento”, perdita di riferimenti fisici nei quali riconoscersi, perdita dei “luoghi” dei quali sentirsi responsabili e nei quali trovare valori, conforto e calore. La trasformazione culturale ed etica delle comunità si accompagna alla trasformazione fisica del Paesaggio.
Il secondo dopoguerra, gli anni del boom economico, sono quindi anni contraddittori per il nostro Paese; anni di cambiamento su cui pare riflettere solo l'analisi di alcuni protagonisti del mondo culturale dell'epoca, impegnati a denunciare, contrastare, la deriva a cui il Paese pareva pericolosamente avviarsi. Poche sentinelle, inascoltate! Nel campo dell'arte cinematografica, il film “Le mani sulla città” del regista Francesco Rosi descrive e spiega meglio di tanti trattati cause e fatti di quanto avveniva e le conseguenze che ne sarebbero poi derivate. Vano e sottovalutato fu anche l’allarme lanciato da Pier Paolo Pasolini nei confronti dei falsi miti della modernità e della trasformazione “antropologica” che gli italiani parevano subire, aderendo a modelli di cui oggi avvertiamo -con colpevole ritardo- la vacuità e la insostenibilità.
Conseguenza di questa deriva fu l'ascesa e l'affermazione di una classe dirigente, politica ed economica, il cui decadimento etico sarà poi denunciato da uno degli uomini-simbolo di quella che una volta chiamavamo Sinistra: Enrico Berlinguer. Nella celebre intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari, nel luglio del 1981, Berlinguer parla chiaramente: “(...) I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune(...)”.
Facile ora riconoscere nelle parole di Berlinguer il ceto politico inquietante che diede vita al cosiddetto “Sacco di Palermo” (nella fotografia a lato) e alle tante speculazioni che, dalla fine deli anni ’50 del secolo scorso, dilaniarono gran parte del tessuto urbano e del paesaggio italiano. Sono gli stessi personaggi che oggi ritroviamo protagonisti delle tante “mafie capitali”, “provinciali e cittadine”, portate quotidianamente alla luce da scandali e inchieste della magistratura. Inquietante è anche il fatto che mai una voce di denuncia si levi, prima dell'intervento della magistratura, da ambienti che appaiono spesso più “complici” che “vittime” di un sistema corruttivo che pare non avere eguali nel mondo occidentale.

Dalle “antiche consuetudini” ai Piani Regolatori Generali
Soprattutto in Italia, ben presto abbiamo scoperto che, per progettare e costruire “luoghi” accoglienti e pregni di significati etici, non basta che edifici e complessi urbani rispondano ai criteri della moderna igiene edilizia o ai paramentri delle leggi urbanisitiche. Del resto, il richiamo alla necesssità della Bellezza, sintesi di Estetica ed Etica, non compare mai negli scopi del Piano Regolatore Generale, lo strumento urbanistico che dovrebbe guidare e regolare l'organismo della città, o nei “parametri-indici” da rispettare nella progettazione architettonica.
Rinunciando al principio della Bellezza, i Piani Regolatori redatti da “moderni” urbanisti e architetti spesso hanno mostrato di assecondare più i “desiderata” della speculazione edilizia, della rendita fondiaria, che di perseguire il bene della comunità, divenendo strumento utile per operazioni e vantaggi “particolari” compiuti a volte anche a danno dell'ambiente e dei territori. Inutile negarlo: paragonati alle città e al paesaggio che i nostri padri ci hanno consegnato, la qualità e i risultati del lavoro svolto sugli organismi delle nostre città da parte di “ commissioni e professionisti del settore”, tante volte mostrano i segni di una crisi, una involuzione, che è estetica e culturale insieme. Ma cosa grave è che , nella maggior parte dei casi, tutto questo è avvenuto e continua ad avvenire complice la sostanziale “indifferenza” (o miope “convenienza”) delle comunità. E' successo quanto paventava Peppino Impastato: negli ultimi decenni abbiamo perduto la capacità di riconoscere e difendere la Bellezza.
Il degrado che attanaglia ed espande indefinitamente tante nostre periferie, la devastazione progressiva e ininterrotta delle nostre campagne e delle zone costiere, l'incuria subita dai territori, fanno sì che il cosiddetto “bel Paese”, rischia di diventare – se già non lo è diventato- un valore in parte “perduto”, lo ripetiamo, sia dal punto di vista estetico che dal punto di vista etico.

Il cerchio si chiude: la Bellezza è un principio morale!
Ecco perché il principio della Bellezza è così importante: perché saper riconoscere, difendere, creare, la Bellezza ci impone dichiedere contenutiad altri princìpi! Chiedere contenuti, ad esempio, proprio ad uno di quei principio che -al pari di altri- sembra svuotato di significato, svilito e ridotto a “maschera”: il principio della Legalità.
E' questa una riflessione che ritorna spesso nella nostra attività come presidio “Rita Atria”. Noi pensiamo che la parola Legalità sia un termine a volte svilito poiché il concetto-principio di Legalità, intesa come insieme delle regole-leggi che dovrebbero servire a governare la comunità, è stato depredato dal principio che deve nutrirlo e su cui deve trovare fondamento: il principio della Giustizia. Cosicché, tante volte ci troviamo dinanzi a regole che sono state rese “legali” (divenendo leggi) ma che non ci appaiono “giuste”; regole-leggi che non giudichiamo “belle”: le leggi “ad -personam”, ad castam...Regole-leggi che non sono volte a perseguire il bene della comunità quanto piuttosto a garantire interessi e privilegi particolari. Non tutto ciò che è (reso) legale è giusto!
Occorrono donne, uomini, nuove generazioni, che siano capaci di levare la loro voce in difesa di un principio, la Bellezza, che è anzitutto affermazione di un principio morale a fondamento di una Democrazia autentica. Un principio, la Bellezza, che necessita di fatica e impegno a favore del bene della comunità; un principio, la Bellezza, che impone il riconoscimento del merito, delle capacità di ognuno e non “fedeltà” o “appartenenza”, ad un “padrino”, ad una “tessera”, ad una “casta o ad una cricca”; un principio, la Bellezza, che nasce attraverso la creazione di una società in cui l’Armonia e la Solidarietà fra le componenti siano la meta verso cui volgere progetti, azioni, “sogni”.

E allora: auspichiamo che si incontrino donne, uomini, nuove generazioni, cittadine e cittadini responsabili, capaci di riconoscere e difendere il principio della Bellezza!



Arturo Francesco Incurato

referente presidio LIBERA “Rita Atria” Pinerolo


giovedì 25 giugno 2015

Il dovere della Memoria: 25 giugno 1992, l'ultimo intervento pubblico di Paolo Borsellino

Il dovere della Memoria. la sera del 25 giugno 1992 Paolo Borsellino interviene ad un dibattito organizzato dalla rivista Micromega  e che si tiene nell'atrio della Biblioteca Comunale di Palermo;sarà il suo ultimo intervento pubblico.
Paolo Borsellino giunge nell'atrio della biblioteca quando il dibattito è gia iniziato: era i giorni del lavoro indefesso, incessante, condotto sentra tregua per cercare di scoprire la verità sulla strage di Capaci. Ad attendere Paolo Borsellino, la "piccola Palermo degli onesti" ( come l'aveva definita Giuseppe D'Avanzo nell'articolo "Vergogna, vergogna, assassini"), che lo attende ed accompagna il suo passaggio con un lunghissimo e fragoroso applauso che si contrappone al silenzio, quasi surreale, che cala nella sala quando Paolo Borsellino comincia a pronunciare il suo discorso. Sono parole colme di sdegno e di rabbia, parole scolpite nella pietra, nella coscienza di un "servitore dello Stato" che conosce bene il suo destino: è lui l'ultimo "ostacolo" da eliminare.  Ma quella consapevolezza non lo fa fuggire: Paolo Borsellino non si sottare dall'essere, come Giovanni Falcone- la Speranza  di quella piccola Italia "degli onesti", disgustata. 
Ma Paolo Borselino quella sera è Speranza e Testimone insieme: ancora una volta è la sentinella della Bibbia che vede e denuncia! Le sue parole sono chiare: Paolo Borsellino attende di riferire quello che sa alle autorità giudiziaria, "(...) l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone". Ma Paolo Borsellino non verrà mai ascoltato da quella autorità giudiziaria! Questo uno dei tanti scandali del calvario che Borsellino subì nei cinquantasette giorni che separano la sua morte da quella di Giovanni Falcone!



Il testo integrale del discorso di Paolo Borsellino

"Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro.
In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.

Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l'argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul "Sole 24 Ore" dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul "Corriere della Sera" che bollava me come un professionista dell'antimafia, l'amico Orlando come professionista della politica, dell'antimafia nella politica. 
Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest'uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall'esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l'aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L'opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell'agosto 1988, l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l'intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po' più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.

Certo anch'io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch'esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. 
Il suo intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e l'organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

lunedì 22 giugno 2015

Papa Francesco a Torino: una denuncia, un appello, quattro "NO", una richiesta di perdono

Questi sono i giorni di Papa Francesco. Fra i cosiddetti "potenti della Terra" è l'unico capace di portare emozione e speranza concreta nelle donne e negli uomini che vivono l'Umanità dolente dei nostri giorni.
A partire dall'enciclica promulgata pochi giorni orsono, " Laudato sì" ( qui il testo integrale ), le sue parole suonano forti e chiare: sono le parole della sentinella del racconto bibblico, la sentinella che vede l'ingiuszia e la denuncia!  Tanto che non si è mai udito nella  Chiesa che conosciamo la chiamata a salvare la Terra dall'azione dell''Uomo! 
Il coraggio di una tale denuncia  ci fa tornare alla mente il coraggio di altri sacerdoti della chieda cattolica: Don Pino Puglisi, don Beppe Diana, l'arcivescono Romero. Martiri in nome e a  difesa della Giustizia. Nelle  parole di Papa Franesco ritorviamo l'eco di coloro che chiedono l'affermazione della Giustizia già in questo mondo, un mondo dominato e soggiogato invece da un Potere spietato.
Questi sono i giorni di Papa Francesco a Torino, ieri la città dei "santi laici", oggi la città nella quale un decimo della sua gente vive in condizioni di povertà assoluta!
Queste sono le parole di Papa Francesco pronunciate a Torino: l'appello per il lavoro che significa Dignità ( e Libertà); i quattro "No" pronunciati: contro il sistema economico che riduce i migranti, a merce ed i poveri a individui "usa e getta"; il "No" contro l'idolatria del denaro; Il "No" alla corruzione, che deve significare "no" alla mafie, alle truffe, alle tangenti, ai privilegi; Il No all'iniquità che genere che genera violenza.
E infine, la richiesta di perdono ai valdesi per le crudeltà "inumane" da loro subite a causa delle persecuzioni  perpetrate dai cattolici.
 
Discorso di Papa Francesco  pronunciato nella piazzetta Reale a Torino

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Saluto tutti voi, lavoratori, imprenditori, Autorità, giovani e famiglie presenti a questo incontro, e vi ringrazio per i vostri interventi, da cui emerge il senso di responsabilità di fronte ai problemi causati dalla crisi economica, e per aver testimoniato che la fede nel Signore e l’unità della famiglia vi sono di grande aiuto e sostegno.
La mia visita a Torino inizia con voi. E anzitutto esprimo la mia vicinanza ai giovani disoccupati, alle persone in cassa-integrazione o precarie; ma anche agli imprenditori, agli artigiani e a tutti i lavoratori dei vari settori, soprattutto a quelli che fanno più fatica ad andare avanti.
Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale. Torino è storicamente un polo di attrazione lavorativa, ma oggi risente fortemente della crisi: il lavoro manca, sono aumentate le disuguaglianze economiche e sociali, tante persone si sono impoverite e hanno problemi con la casa, la salute, l’istruzione e altri beni primari. L’immigrazione aumenta la competizione, ma i migranti non vanno colpevolizzati, perché essi sono vittime dell’iniquità, di questa economia che scarta e delle guerre. Fa piangere vedere lo spettacolo di questi giorni, in cui esseri umani vengono trattati come merce!
In questa situazione siamo chiamati a ribadire il “no” a un’economia dello scarto, che chiede di rassegnarsi all’esclusione di coloro che vivono in povertà assoluta – a Torino circa un decimo della popolazione. Si escludono i bambini (natalità zero!), si escludono gli anziani, e adesso si escludono i giovani (più del 40% di giovani disoccupati)! Quello che non produce si esclude a modo di “usa e getta”.
Siamo chiamati a ribadire il “no” all’idolatria del denaro, che spinge ad entrare a tutti i costi nel numero dei pochi che, malgrado la crisi, si arricchiscono, senza curarsi dei tanti che si impoveriscono, a volte fino alla fame.
Siamo chiamati a dire “no” alla corruzione, tanto diffusa che sembra essere un atteggiamento, un comportamento normale. Ma non a parole, con i fatti. “No” alle collusioni mafiose, alle truffe, alle tangenti, e cose del genere.
E solo così, unendo le forze, possiamo dire “no” all’iniquità che genera violenza. Don Bosco ci insegna che il metodo migliore è quello preventivo: anche il conflitto sociale va prevenuto, e questo si fa con la giustizia.
In questa situazione, che non è solo torinese, italiana, è globale e complessa, non si può solo aspettare la “ripresa” – “aspettiamo la ripresa…” -. Il lavoro è fondamentale – lo dichiara fin dall’inizio la Costituzione Italiana – ed è necessario che l’intera società, in tutte le sue componenti, collabori perché esso ci sia per tutti e sia un lavoro degno dell’uomo e della donna. Questo richiede un modello economico che non sia organizzato in funzione del capitale e della produzione ma piuttosto in funzione del bene comune. E, a proposito delle donne - ne ha parlato lei [la lavoratrice che è intervenuta] -, i loro diritti vanno tutelati con forza, perché le donne, che pure portano il maggior peso nella cura della casa, dei figli e degli anziani, sono ancora discriminate, anche nel lavoro.
E’ una sfida molto impegnativa, da affrontare con solidarietà e sguardo ampio; e Torino è chiamata ad essere ancora una volta protagonista di una nuova stagione di sviluppo economico e sociale, con la sua tradizione manifatturiera e artigianale - pensiamo, nel racconto biblico, che Dio ha fatto proprio l’artigiano… Voi siete chiamati a questo: manifatturiera ed artigianale - e nello stesso tempo con la ricerca e l’innovazione.
Per questo bisogna investire con coraggio nella formazione, cercando di invertire la tendenza che ha visto calare negli ultimi tempi il livello medio di istruzione, e molti ragazzi abbandonare la scuola. Lei [sempre la lavoratrice] andava la sera a scuola, per poter andare avanti…
Oggi vorrei unire la mia voce a quella di tanti lavoratori e imprenditori nel chiedere che possa attuarsi anche un “patto sociale e generazionale, come ha indicato l’esperienza dell’“Agorà”, che state portando avanti nel territorio della diocesi. Mettere a disposizione dati e risorse, nella prospettiva del “fare insieme”, è condizione preliminare per superare l’attuale difficile situazione e per costruire un’identità nuova e adeguata ai tempi e alle esigenze del territorio. È giunto il tempo di riattivare una solidarietà tra le generazioni, di recuperare la fiducia tra giovani e adulti. Questo implica anche aprire concrete possibilità di credito per nuove iniziative, attivare un costante orientamento e accompagnamento al lavoro, sostenere l’apprendistato e il raccordo tra le imprese, la scuola professionale e l’Università.
Mi è piaciuto tanto che voi tre abbiate parlato della famiglia, dei figli e dei nonni. Non dimenticare questa ricchezza! I figli sono la promessa da portare avanti: questo lavoro che voi avete segnalato, che avete ricevuto dai vostri antenati. E gli anziani sono la ricchezza della memoria. Una crisi non può essere superata, noi non possiamo uscire dalla crisi senza i giovani, i ragazzi, i figli e i nonni. Forza per il futuro, e memoria del passato che ci indica dove si deve andare. Non trascurare questo, per favore. I figli e i nonni sono la ricchezza e la promessa di un popolo.
A Torino e nel suo territorio esistono ancora notevoli potenzialità da investire per la creazione di lavoro: l’assistenza è necessaria, ma non basta: ci vuole promozione, che rigeneri fiducia nel futuro.
Ecco alcune cose principali che volevo dirvi. Aggiungo una parola che non vorrei che fosse retorica, per favore: coraggio!. Non significa: pazienza, rassegnatevi. No, no, non significa questo. Ma al contrario, significa: osate, siate coraggiosi, andate avanti, siate creativi, siate “artigiani” tutti i giorni, artigiani del futuro! Con la forza di quella speranza che ci dà il Signore e non delude mai. Ma che ha anche bisogno del nostro lavoro. Per questo prego e vi accompagno con tutto il cuore. Il Signore vi benedica tutti e la Madonna vi protegga. E, per favore, vi chiedo di pregate per me! Grazie!


venerdì 19 giugno 2015

Un impresentabile di "casa nostra" a Moncalieri?

Un "impresentabile" candidato di "casa nostra", della nostra regione, eletto nell'ultima tornata elettorale a Moncalieri? Il contenuto dell'articolo che ha portato alla luce la vicenda è tale che dovrebbbe fare riflettere non solo il partito che ha presentato il candidato, il PD,  ma anche la cosiddetta società civile  che si dimostra ancora una volta "inutile sentinella", incapace di pretendere qualità, eccellenza, onorabilità, nella "formazione e selezione" della classe dirigente ( non solo politica) della nazione.
Il Sen. Elvio Fassone  in una intervista rilasciata alcuni mesi orsono al giornale Pinerolo Indialogo (qui l'articolo) rifletteva, fra le altre cose, sulla classe politica:“(…) La classe politica non è mai all’altezza. Purtroppo infatti la politica non riesce ad attrarre chi dovrebbe. (…)”.
Eppure, quando si  formano liste elettorali e nomine per qualsivoglia incarico pubblico, a nostro parere basterebbe seguire la "lezione" di Paolo Borsellino per comincare ad operare una necessaria "scrematura"!... 
Ce la ricordiamo quella "lezione"?:


 "L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E no! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: 'Beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest'uomo è mafioso'. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c'è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati." Paolo Borsellino 


fonte : La Repubblica

Un consigliere "impresentabile"imbarazza il Pd a Moncalieri

Mario Nesci, imprenditore edile, è parente e amico di importanti boss della ‘ndrangheta di cui secondo i giudici potrebbe essere stato anche "consulente politico"




Il Pd che vince alle elezioni a Moncalieri, e già vacilla per le rese di conti interne, si ritrova anche il problema di un candidato "impresentabile". Dopo la nomina del giovane Giuseppe Messina ad assessore all'Istruzione e Sport, è infatti subentrato in Consiglio comunale il primo escluso, Mario Nesci, 527 preferenze. Nesci che si è appena dimesso da presidente del Consiglio comunale di Ciminà, cuore della Locride, in Calabria. Imprenditore edile a Moncalieri, è noto ai magistrati di Reggio Calabrliberaia per la parentela (e la vicinanza politica) con Nicola Nesci, arrestato nell'ottobre 2012 nella monumentale indagine "Saggezza" che ha svelato l'esistenza di una struttura organizzativa utilizzata dalle ‘ndrine del mandamento jonico, la "Corona", e i contatti con i massimi vertici della massoneria.

Nicola Nesci, per i magistrati calabresi, è "maestro di Corona e capoconsigliere" e vanta una discreta carriera anche tra i grembiulini: l'uomo, scrivono i magistrati, «è Maestro segreto di 31° grado", nonché «Presidente della camera di 4° grado». Ed è «legato a tre soggetti, tre "fratelli" massoni, uno dei quali, Giuseppe Siciliano, finito agli arresti perché ritenuto un uomo del clan di Ardore.

Fin qui, solo la parentela. Ma basta sfogliare le duemila pagine dell'inchiesta di Reggio per trovare molti, forse troppi, riferimenti anche a Mario Nesci, classe 1948, cugino di Nicola, con una passione per la politica che risale al 2006 quando nelle piazze di Ciminà si cominciava a discutere di una discesa in campo del "locale" guidato dalla famiglia Nesci-Spagnolo. «Il capo cosca Antonio Spagnolo, trafficante di stupefacenti ma anche imprenditore edile, si occupa di opere pubbliche»: scrive il magistrato di Reggio Calabria. Si rende a quel punto necessario controllare l'amministrazione comunale. «In questo contesto si inserisce la candidatura di Nicola Nesci: un ''azzardo'' rispetto alle regole di ‘ndrangheta, ma che inizialmente non appare un rischio per il sodalizio, perché maturato in un clima di assoluta serenità. Come dimostrano le conversazioni con il cugino Mario, altro candidato poi risultato eletto». «La tua disponibilità sarà importantissima" dice Mario a Nicola. «Ci vuole un'inversione di tendenza forte - aggiunge - dev'essere nel pensiero di tutti perché questo nostro paesello è un malato terminale che ha bisogno di assistenza continua". Il candidato nella lista del Pd di Montagna vive già , a quel punto, nel Torinese. Non è indagato, ma le tante conversazioni telefoniche coi parenti nella Locride lo fanno spiccare per il ruolo centrale che ha nelle trattative per la formazione della lista e negli accordi con i politici locali.

Mario e Nicola parlano, ad esempio, della necessità di trovare un accordo con Giuseppe Fudoli, ex sindaco di Ciminà e personaggio carismatico sulla scena politica locale. Mario, che fa da consigliere per l'avventura politica dei Nesci, suggerisce di coinvolgerlo nel loro disegno. Poi a ridosso delle elezioni, a marzo 2007, "scende" nel paese d'origine per dare un assetto definitivo all'intera coalizione. Le elezioni del maggio 2007 vanno bene. E Nicola Nesci comunica i risultati al cugino lontano: appena si conclude lo spoglio. «Eh! E com'è andata Nicola?". «La lista ha preso intorno ai 250 voti. Tu 24 o 25 preferenze». Mario Nesci è eletto in consiglio a Ciminà con il cugino Nicola. E dal 2012 diventa assessore. 
Nel frattempo la Procura di Reggio Calabria infligge un duro colpo all'amministrazione del piccolo paese. Durante una perquisizione i carabinieri di Locri troveranno in casa di Nicola Nesci, ordinatamente piegati e custoditi in camera da letto, i paramenti per i gradi della loggia del Grande Oriente. Dell'ex operaio forestale conoscevano i precedenti per armi e tentata estorsione, le frequentazioni con pregiudicati della zona, gli affari nel noleggio delle slot-machine e l'interesse per la politica. Ne conoscevano bene, per averlo arrestato con l'accusa di narcotraffico, anche il cognato Antonio Spagnolo, boss di Ciminà. Sapevano dei rapporti con i familiari emigrati al Nord. 
Anche la Commissione nazionale antimafia che si è pronunciata da poco sui candidati impresentabili alle i regionali, ha un riflettore acceso sulla partita politica di Moncalieri. Toccherà al nuovo sindaco trovare il modo di spegnerlo.



venerdì 12 giugno 2015

Enrico Berlinguer e la "questione morale": sentinella inascoltata

Ieri ricorreva l'anniversatrio della morte di Enrico Berlinguer uomo-simbolo di quella corrente di pensiero politico che una volta chiamavamo Sinistra. Enrico Berlinguer muore l'11 giugno 1984 alla guida del Partito Comunista.Enrico Berlinguer muore lasciando una eredità morale e umana che nessuno è stato in grado di raccogliere. Non è un caso che la sua memoria, il suo ricordo, proprio nella giornata di ieri sia apparso "sbiadito e scomodo" per un Paese come l'Italia dei nostri giorni, sconquassato dagli scandali di una classe politica e dirigente indegna del confronto con uomini quali Enrico Berlinguer: un paese che ha rinunciato a confrontarsi con la "questione morale" che Enrico berlinguer aveva avuto il coraggio di denunciare. sentinella inascoltata
Ce li ricordiamo gli anni di Berlinguer? Erano anni cruciali. Gli anni che seguirono il boom economico degli anni sessanta sono anni di cambiamenti profondi, segnati e accompagnati da storie drammatiche che insanguinano l'Italia già a partire dalll'immediato dopoguerra: la strategia del terrore inaugurata dalla strage di Portella dellae Ginestre, guerre di mafie, il terrorismo. 
Sono anni di cambiamenti tumultuosi  che investono la cultura stessa delle comunità italiane e i valori su cui si fondano i rapporti fra gli individui. Cambiamenti su cui pare riflettere solo l'analisi di alcuni protagonisti del mondo culturale dell'epoca: poche sentinelle, inascoltate! Nel campo dell'arte cinematografica, l film “Le mani sulla città”, del regista Francesco Rosi, descrive e spiega meglio di tanti trattati cause e fatti di quanto avveniva, tratteggiando anche le conseguenze che ne sarebbero poi derivate. Nel panorama della cultura letteraria vano e sottovalutato fu l’allarme di Pier Paolo Pasolini verso i falsi miti della modernità, nei confronti della trasformazione “antropologica” che gli italiani subivano, aderendo a modelli di cui oggi avvertiamo -con colpevole ritardo- la vacuità e la insostenibilità.
Conseguenza di questo fu l'ascesa e l'affermazione di una classe dirigente, politica ed economica, il cui degrado etico sarà denunciato proprio da Enrico Berlinguer. Nella celebre intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari (28 luglio del 1981) Berlinguer parla chiaramente: “(...) I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune(...)”. 
In quella intervista Enrico Berlinguer ha ancora la possibilità di difendere "una diversità" del suo partito, della sua Sinistra, che, alla luce dei fatti accaduti è stata poi offesa e cancellata dalle tante "iene e sciacalleti" rappresentati da coloro che spesso ne hanno preso il posto. Qui il testo integrale di quella intervista .
Ripetiamo quanto abbiamo già detto: "Rileggendo quell'intervista, anzicchè "analisi datata" del mondo dei partiti dell'epoca,  le parole di Berlinguer appaiono come "il copione" seguito poi da "pezzi" della nazione, in cui varie componenti "colludono"  in uno scambio di reciproci favori e omissioni, barattando "doveri e diritti", facendo strame dei principi fondativi della nazione stessa". Facile ora riconoscere nelle parole di Berlinguer quel ceto politico inquietante, e con tratti a volte eminentemente “criminali”, incarnato da amministratori che diedero vita al cosiddetto “Sacco di Palermo”, anni Sessanta dello scorso secolo, e che oggi ritroviamo protagonisti delle tante “mafie capitali”, “provinciali e cittadine” portate quotidianamente alla luce da scandali e inchieste della magistratura. E mai che una voce di denuncia si levi prima dell'intervento della magistratura, da ambienti che appaiono spesso più “complici” che “vittime” di un sistema corruttivo che non ha eguali nel mondo occidentale. 
 

sabato 6 giugno 2015

REDDITO DI CITTADINANZA E' DIRITTO ALLA DIGNITA'

Sabato 6 giugno in piazza contro la povertà e le disuguaglianze

Oltre 70 mila cittadini hanno firmato la petizione di Libera e Gruppo Abele per chiedere una una buona legge sul reddito minimo o di cittadinanza. La mobilitazione scende in piazzaLibera e Gruppo promuovono insieme alle  realtà sociali e studentesche il 6 giugno la giornata nazionale della dignità e per il reddito. In oltre 200 piazze, dal Nord al Sud, saranno organizzati banchetti, iniziative, feste per raccogliere le firme per l'istituzione il reddito minimo o reddito di cittadinanza contro la povertà e le diseguaglianze e per contrastare le mafie.
Dal 2008 al 2014 la crisi in Italia ed Europa secondo i dati Istat ha più che raddoppiato i numeri della povertà relativa ed assoluta. Dieci milioni di italiani e italiane vivono in condizione di povertà relativa, e sei milioni in condizione di povertà assoluta. Le diseguaglianze sono cresciute a dismisura e diventate insopportabili. Più la povertà aumenta, più le diseguaglianze si ampliano, più le mafie si rafforzano. Per questo in Italia è necessario avere una misura come il reddito minimo o di cittadinanza. Non è impossibile, non è una proposta irrealistica: è una scelta di buon senso, necessaria e giusta.
Il 6 giugno nelle piazze di Italia con Libera e Gruppo Abele per un richiesta chiara: il Parlamento approvi subito una buona legge per il reddito minimo o di cittadinanza per contrastare povertà, diseguaglianze e mafie. L'appello ha già ottenuto l'adesione di tutti i gruppi parlamentari del M5S, di Sel, di Area Riformista del Pd e di altri parlamentari del gruppo misto .Il reddito minimo o di cittadinanza, è un supporto al reddito che garantisce una rete di sicurezza per chi non riesce a trovare un lavoro, per chi ha un lavoro che però non garantisce una vita dignitosa, per chi non può accedere a sistemi di sicurezza sociale adeguati. Il reddito minimo o di cittadinanza- concludono Libera e Gruppo Abele-è una misura necessaria per invertire la rotta della crisi, una risposta concreta ed efficace a povertà e mafie perché garantisce uno standard minimo di vita per coloro che non hanno adeguati strumenti di supporto economico, liberandoli da ricatti e soprusi. È una misura prevista già da tutti i paesi europei, con l'esclusione di Italia, Grecia e Bulgaria. Il Parlamento Europeo ci chiede dal 16 ottobre 2010 di varare una legge che introduca un "reddito minimo, nella lotta contro la povertà e nella promozione di una società inclusiva".E'arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti. Milioni di italiani non possono più aspettare.