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domenica 16 febbraio 2014

Le Donne e i Giovani: il cambiamento possibile

La speranza che la battaglia culturale contro le mafie abbia il sopravvento dipende dall’atteggiamento dei giovani e dalle donne.


Dipende dai giovani, perchè così parlò Paolo Borsellino in un discorso che è parte stessa del suo testamento spirituale, “(…) le giovani generazioni  le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse "La gente fa il tifo per noi"; e con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice, significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze (…)”
Dipende dalle donne perché le donne, generando la vita, sono esse stesse generatrici del cambiamento possibile 
La storia che vogliamo presentare è quella di Giovanna Galatolo, una donna, la figlia di un boss mafioso.

Fonte: Corriere della Sera
Giovanna “disonorata “ per strappare alla mafia la figlia minorenne

Forse non lo sa, ma nelle parole di Giovanna Galatolo, la figlia del boss dell’Acquasanta, del sanguinario “don Vincenzo”, il “padrone” del quartiere addossato al Cantiere navale di Palermo, sembrano echeggiare le denunce di Peppino Impastato o la ribellione di Rita Atria. Perché è dirompente lo schiaffo dato alla regola dell’omertà da questa donna di cinquant’anni che, da novembre sotto protezione in località segreta, ha mollato la sua famiglia mafiosa rinnegando il padre all’ergastolo per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, coinvolto nell’inchiesta sul fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone.
Come l’eroe-simbolo di Cinisi che si schierò contro il boss Gaetano Badalamenti e come la ragazza di Marsala che si suicidò disperata dopo la strage di Paolo Borsellino al quale aveva denunciato gli affari della sua famiglia, anche Giovanna Galatolo è capace del grande passo motivato da una speranza: «Strappare da questo mondo mia figlia, ancora minorenne».
Testimonianza forte, legami di sangue tranciati di netto pur di garantire un futuro migliore alla figlia, il dito puntato contro fratelli, zii, cugini, verbali sottoscritti con piena consapevolezza e adesso entrati di forza con tutto il dramma interiore della scelta nel processo in corso a Palermo contro Angelo Galatolo e Franco Mineo, l’ex deputato regionale di un partitino autonomista, “Grande Sud”, un passato di sindacalista, accusato di intestazione fittizia di beni aggravata, di peculato, malversazione e usura.
Solita storiaccia di cointeressenze e di prestanome. Con Mineo che, in cambio di voti, avrebbe versato il canone d’affitto riscosso in magazzini e negozi ai Galatolo, i veri proprietari. Ipotesi d’accusa confermata proprio da Giovanna “la pentita” o “la sbirra”, come tanti la chiamano nel quartiere. Ma questi ed altri insulti non la fecero tacere in autunno: «Mi ricordo di un certo Mineo, un sindacalista, amico di Angelo Galatolo, il figlio di Gaetano… Mi è stato chiesto pure di votare per Mineo, prima da Giovanni Galatolo, fratello di Angelo, poi anche Stefano Galatolo che lo chiese a mio marito…». E ieri ha confermato rispondendo alle domande del pubblico ministero Piero Padova parlando del bar più frequentato nella zona, il “Nuova Esedra”, di una merceria, del negozio di abbigliamento Vegard, formalmente gestiti dal prestanome, nei fatti proprietà di “famiglia”.
Fa riflettere questo passo con qualche precedente, non  molti, opposti ai tanti “non so” di generazioni allevate a pane e mafia che si muovono silenti sulla scia di genitori con le mani sporche di sangue. A cominciare dai figli di Rina e Provenzano, rimasti freddi e distaccati davanti all’orrore compiuto sotto i loro occhi mentre crescevano costretti alla latitanza con i genitori.
Giovanna Galatolo rompe gli schemi, sconvolge la finta e tragica quiete di un intero quartiere e padre, madre, zii, sono tutti pronti a farla passare per pazza, puttana o “disonorata”. Ma hanno davanti un osso duro e lei ha la forza di replicare, tosta: «Non voglio più stare nella mafia, perché ci dovrei stare? Solo perché mio padre è mafioso? No, non ci sto. Non voglio rimanere nell’ambito criminale. Né voglio trattare con persone indegne. Adesso che collaboro mi vogliono fare passare per prostituta. Io voglio dedicarmi solo a mia figlia».
Infine, lapidaria, la conferma dell’inferno in cui ha vissuto con un profilo di “don Vincenzo” che continuerebbe a comandare dal carcere: «Dalla sua cella impartisce direttive. So per averlo appreso da mia figlia che mio fratello Vito ha avuto un colloquio con lui…». Testimonianza verbalizzata con molti omissis perché su questo si indaga. E ancora: «Mio padre comandava dal carcere. Attraverso segni convenzionali ci diceva cosa dovevamo fare… Impartiva ordini durante i colloqui, faceva pure telefonate dal carcere per parlare con i suoi familiari. Vivevamo tutti nello stesso palazzo, quindi bastava parlasse con uno che parlava con tutti…».
È un colpo secco alla tracotante certezza di una mafia che si sentiva inattaccabile al suo interno, in questo caso messa a nudo come chiedeva nel 1992 Rosaria Schifani, la giovane vedova di uno degli agenti uccisi con Falcone, invocando i figli dei mafiosi a far pentire i padri o a rinnegarli.


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