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mercoledì 29 maggio 2013

"Una Commedia ...LIBERA!"


I ragazzi delle classi terze 
della scuola secondaria di I grado
“Filippo Brignone”(plesso di San Secondo) Pinerolo

sono lieti di invitarvi ad uno spettacolo intitolato:

"Una Commedia ...Libera!"


Il giorno Mercoledì 29 maggio alle ore 21.00
presso il Teatro Incontro di Pinerolo  (via Caprilli)

L’ingresso è gratuito con offerta libera

Il ricavato verrà donato a:




Una commedia realizzata per farvi divertire e riflettere 
nello stesso tempo.
Grazie per l’attenzione.
PARTECIPATE NUMEROSI!!



martedì 28 maggio 2013

Fare Memoria. Strage di Piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio 1974

Fare Memoria: Strage di Piazza della Loggia a Brescia . 28 maggio 1974



Lo abbiamo detto in altre occasioni: "(...) Morti innocenti, delitti oscuri perpetrati da mani a cui abbiamo dato il nome di mafie, bande, terroristi, servizi segreti deviati, golpisti. E’successo e potrebbe succedere ancora: delitti commessi pensando che, in Italia, potesse servire “a qualcosa e a qualcuno” spargere sangue innocente, seminare paure e insicurezza per annientare persone, idee, valori.(...)"
Quel giorno , il 28 maggio 1974, in Piazza della Loggia era in corso una manifestazione indetta dai sindacati e dal  Comitato Antifascista come atto di protesta contro gli episodi di terrorismo neofascista che si erano manifestati nei mesi precedenti. Una bomba nascosta in un cestino porta-rifiuti fu fatta esplodere mentre la folla era accalcata sotto il palco ascoltando il comizio.
Il 14 aprile 2012 la Corte d'Appello conferma l'assoluzione per tutti gli imputati appartenenti all'area della estrema destra, condannando le parti civili al rimborso delle spese processuali. 
L'ennesima strage italiana, l'ennesima strage "senza colpevoli". 
Quel giorno, il 28 maggio 1974,  oltre ad un centinaio di feriti, morirono 8 innocenti. .

Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante
Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante
Euplo Natali, anni 69, pensionato
Luigi Pinto, anni 25, insegnante
Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio
Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante
Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante
Vittorio Zambarda, anni 60, operaio

lunedì 27 maggio 2013

Strage di Via De' Georgofili. Firenze. 27 maggio 1993

Il dovere della memoria.
Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, a Firenze, viene fatta esplodere una Fiat Fiorino imbottita di esplosivo nei pressi della storica Torre dei Pulci, tra gli Uffizi e l'Arno, sede dell'Accademia dei Georgofili.
Nell'esplosione, perde la vita Caterina Nencioni (50 giorni di vita), Nadia Nencioni (9 anni), Angela Fiume (36 anni), Fabrizio Nencioni (39 anni), Dario Capolicchio (22 anni). Rimangono ferite 48 persone 
Fonte : LA Repubblica. maggio 2012

LAURA MONTANARI
" Ricordare non è un esercizio di ripetizione perché nessun anniversario è uguale al precedente.(...) Stanotte ha un senso restare svegli, mescolarsi al corteo che partirà all’una da piazza della Signoria per arrivare sotto la torre de’ Pulci. Ha un senso ricordare l’esplosione, le sirene, il fuoco, il tappeto di vetri e calcinacci sulla strada. Ha senso tornare alla notte in cui abbiamo creduto che fosse «soltanto» una fuga di gas e ricordare invece la mattina dopo quando ci hanno detto che invece era una bomba." 
Morirono Angela e Fabrizio Nencioni, le loro figlie Nadia e Caterina e lo studente in architettura Dario Capolicchio. Quarantuno persone rimasero ferite. Furono danneggiati gli Uffizi, Palazzo Vecchio, la chiesa di Santo Stefano al Ponte Vecchio e tutte le abitazioni intorno. 
(...) "Le istituzioni dovrebbero cercare quello sviluppo e quella crescita che permettano ai giovani di inserirsi nel mondo del lavoro, senza dover ricorrere alla mafia." Lo ha detto il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, parlando con gli studenti nell'incontro a Firenze. Grasso ha ricordato di quando un boss gli raccontò di un padre di famiglia che, per sfamare la figlia, gli chiese un lavoro, finendo poi per prestarsi alle richieste della malavita. "Quel boss mi disse - ha ricordato Grasso - che la mafia sarà sconfitta quando, in quelle condizioni di difficoltà, ci si rivolgerà allo Stato e non alla criminalita".
"Come posso parlare di legalità - ha poi aggiunto - a chi non sa come sfamare la figlia? Poter avere un lavoro rende liberi". "La mafia è un fenomeno criminale - ha spiegato Grasso - ma c'è anche chi va chiedere un lavoro alla mafia, anche perchè a volte non ci sono alternative".

Gli ultimi dieci minuti prima della bomba
fonte: Corriere della Sera


FIRENZE - Dario alza lo sguardo verso le lancette dell’orologio in cucina. Segna l’una meno cinque di notte. «Francesca, smettiamo un po’?». Lei accarezza le pagine del libro che sta studiando, sorride e lo guarda: «Dai, ancora una mezzora e poi ce ne andiamo a dormire». Hanno vent’anni, vengono da Sarzana, erano al liceo insieme e insieme si sono iscritti ad Architettura, a Firenze. Vivono in affitto in via dei Georgofili, all’ombra dei grandi finestroni degli Uffizi. Un piccolo appartamento al terzo piano, condiviso con un altro studente che stasera non c’è: il treno da Carrara è stato soppresso e lui non è riuscito a tornare a Firenze. Dario e Francesca non sono proprio partiti, la settimana prossima hanno un esame importante e hanno deciso di non perdere neanche un giorno. Quella casa è il loro sogno: le travi di legno, i quadri da appendere alle pareti, la vita quotidiana passata tra una colazione veloce, i quaderni degli appunti, l’armadio troppo piccolo per due, le cene con gli amici dell’università. «Va bene Frà, facciamo un altro quarto d’ora, dai».

La signora Giovannella ha 84 anni. È la direttrice della pensione «Quisisana», a due passi da Ponte Vecchio. Quella che ha ispirato lo scrittore Edward Morgan Foster per il romanzo «Camera con vista» e poi il celebre film di James Ivory. Ormai tutti i turisti vogliono passare almeno una notte nella «camera 22», proprio davanti al Corridoio Vasariano. Stasera ci dorme una coppia di americani, la ragazza è incinta di sei mesi. Per prendere la stanza ripetevano insistentemente «Ivory, Ivory». Giovannella non ha sonno. Apre una finestra e guarda San Miniato al Monte, respira l’aria di primavera che sembra ancora più bella a Firenze. Passeggia nel corridoio, butta un occhio sulle camere. Stanotte ci sono sessanta ospiti. Il latte, ci sarà il latte? Scappa in cucina, apre il frigo. Sì, c’è latte per tutti. Giovannella ha già apparecchiato la stanza delle colazioni. Poi si siede ad uno dei tavoli. Apre una rivista di enigmistica e comincia a fare due parole crociate. Così, per ingannare il tempo, che stanotte non la fa dormire.
Nadia invece a letto c’è da un po’. È la figlia di Angela, la custode dell’Accademia dei Georgofili. Vive nella Torre dei Pulci, ha nove anni. Suo papà Fabrizio è un vigile. L’ha sentito che si svegliava perchè Caterina piangeva. I bimbi così piccoli, pensa Nadia nel dormiveglia, piangono sempre e che urla che tirano. Oggi la mamma le ha detto che è stata brava: oltre a guardare la sorellina nata da due mesi, ha scritto anche una poesia. La recita al suo orsacchiotto: «Il pomeriggio se ne va/ il tramonto si avvicina/un momento stupendo/il sole sta andando via (a letto)/è già sera/tutto è finito».
All’Accademia regna un gran silenzio. È quello dei libri, più di 70mila volumi e dodicimila manoscritti dal 1700 ad oggi. Stanno lì e aspettano gli studiosi che domani verranno. Il Corridoio Vasariano invece, aspetta i suoi turisti. Pochi, scelti, perché lì si va solo per appuntamento. Da lì i granduchi si muovevano liberamente tra un palazzo e l’altro.
L’orologio della notte si ferma alle 1.04. Marco, da piazzale Michelangelo vede due lampi bianchi e una fiamma. Poi, Firenze muore.
Alessandra Bravi

domenica 26 maggio 2013

Don Pino Puglisi: "E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto". Ucciso in odio alla fede e all'Uomo

Padre Pino Puglisi, ma per i suoi parrocchiani era 3P.

Questo prete era differente: "(...) si sapeva che faceva delle messe non proprio a favore della mafia". 

Fu ucciso dalla mafia la sera del suo compleanno, il 15 settembre 1993 da . Sono passati da poco le otto della sera. 

Salvatore Grigoli, il killer che lo aspettava, don Pino sorrise dicendo "Me l' aspettavo".


Fonte : la Stampa

Decine di migliaia a Palermo
per don Puglisi proclamato beato



Il martire della fede don Puglisi è il patrono della Chiesa anti-mafia. «D’ora in poi nessuno potrà più usurpare il nome di Dio per giustificare la mentalità criminale di quei clan che per decenni si sono ammantati di falsa e blasfema religiosità», afferma a il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, ex postulatore della causa di beatificazione del parroco palermitano ucciso da Cosa Nostra. 

«L’autentica fede in Cristo è incompatibile con qualunque appartenenza ad organizzazioni che avvelenano la società e la privano del suo futuro», aggiunge Mogavero, presente insieme a oltre 80mila fedeli al Foro italico di Palermo per la beatificazione di Padre Pino Puglisi, il sacerdote di Brancaccio che sorrise anche di fronte ai killer della mafia che lo uccisero il 15 settembre 1993. 

Sul Prato del Foro italico c’è un clima di festa serena, tantissime le famiglie presenti, centinaia i volontari provenienti da tutta Italia, scout e associazioni di quartiere. E poi ci sono tantissimi ragazzi che quando Don Pino era a Palermo non erano ancora nati. L’annuncio era stato dato il 28 giugno scorso: don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, nuovo Beato. Benedetto XVI aveva riconosciuto il fatto che l’esecuzione ordinata dai boss e avvenuta davanti alla parrocchia di San Gaetano, retta dal sacerdote, nel quartiere Brancaccio, fu «martirio», commesso «in odio alla fede». 

E Papa Francesco, appena lunedì scorso, durante la visita «ad limina» della Conferenza episcopale siciliana ha esortato la Chiesa locale a dare contro la mafia, una testimonianza più chiara e più evangelica. Nei quasi 20 anni che separano dall’assassinio di padre Pino, «la verità è infine emersa», ha a suo tempo spiegato il postulatore della causa di beatificazione, l’arcivescovo Vincenzo Bertolone, legando la verità del martirio di Puglisi a «quella giudiziaria, vergata con inchiostro indelebile dalla Cassazione» secondo cui «l’omicidio fu deciso dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano per mettere a tacere un sacerdote scomodo, socialmente impegnato, che col suo ministero di pastore di anime, di formatore di coscienze cristiane, soprattutto di quelle dei fanciulli, li ridicolizzava sottraendo loro manovalanza, prestigio e potere, come del resto sprezzantemente li rimproverava uno dei capi indiscussi di Cosa Nostra, Leoluca Bagarella».  

Chi diede l’ordine di ucciderlo lo fece «non per eliminare un pericoloso nemico, alla stregua di magistrati, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile, ma per cercare di fermare un luminoso testimone di fede». Puglisi «era persona tutta di un pezzo, agiva umilmente, con semplicità, senza cercare visibilità, antieroe: annunciava e proclamava l’Unico Necessario, il Padre Nostro». E fu proprio l’essere un uomo libero, «armato della sola forza della Parola, a costargli la vita», giustiziato dall’odio che i mafiosi nutrivano verso il suo modo di essere sacerdote. La sua figura riveste un ruolo di «grande importanza per la società civile, per la Chiesa universale, in particolare per la Chiesa palermitana e siciliana e per tutte quelle che si confrontano sul proprio territorio con le organizzazioni criminali, perché il suo sacrificio ha svelato il grande inganno della mafia, sedicente portatrice di religiosità. Il suo esempio è stato ed è così forte da aver attraversato il tempo: nei 19 anni trascorsi, Brancaccio, Palermo, la Sicilia, l’Italia, il mondo non lo hanno dimenticato». 

«La mafia è intrinsecamente anticristiana», ha poi ribadito il prefetto della Congregazione per le cause dei santi, cardinale Angelo Amato. Quello di don Puglisi, spiega, è stato un «martirio, perché è stato ucciso in odium fidei». «Ovviamente - ha sottolineato il cardinale salesiano - qui bisogna chiarire cosa significa in odium fidei, dal momento che la mafia viene descritta spesso come una realtà “religiosa”, una realtà i cui membri sembrano apparentemente molto devoti». Nel processo canonico, è stato approfondito questo aspetto «e abbiamo visto come, da una parte, abbiamo un’organizzazione che, più che “religiosa”, è essenzialmente “idolatrica”». Anche il paganesimo antico, ricorda Amato, era “religioso”, ma la sua religiosità era rivolta agli idoli. Nella mafia gli idoli sono il potere, il denaro e la prevaricazione. È quindi una società che, con un involucro pseudo religioso, veicola un’etica antievangelica, che va contro i dieci comandamenti e il Vangelo. La Scrittura dice: non uccidere, non dire falsa testimonianza. Nella ideologia mafiosa, invece, si fa esattamente l’opposto. Gesù ha detto di perdonare ai nemici e qui troviamo il contrario: la vendetta. Per la Chiesa Cattolica, dunque, «la mafia è intrinsecamente anticristiana». Per di più, l’odio verso don Puglisi era determinato «semplicemente dal fatto che si trattava di un sacerdote che educava i giovani alla vita buona del Vangelo». Dunque «sottraeva le nuove generazioni alla nefasta influenza della malavita». Davanti a casi analoghi, altri vescovi, potranno ora decidere di seguire l’esempio dell’arcidiocesi di Palermo e introdurre cause di beatificazione per chi ha pagato con la vita il suo impegno per sottrarre i ragazzi alle cosche.  

Secondo il prefetto per le cause dei santi, «pur in un contesto nuovo anche in don Puglisi si verifica il concetto tradizionale di martirio e cioè, appunto, un battezzato ucciso in odio alla fede». È stato ucciso «in quanto sacerdote, non perché immerso in attività socio-politiche particolari. Ucciso in quanto predicava la dottrina cristiana ed educava i giovani a vivere con coerenza il loro battesimo».
Morì per strada, ha sottolineato don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, «dove viveva, dove incontrava i `piccoli´, gli adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto e quanti, con la propria condotta, si rendevano responsabili di illegalità, soprusi e violenze. Probabilmente per questo lo hanno ucciso: perché un modo così radicale di abitare la strada e di esercitare il ministero del parroco è scomodo. Lo hanno ucciso nell’illusione di spegnere una presenza fatta di ascolto, di denuncia, di condivisione». Per don Ciotti, il sacerdote palermitano «ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere, come preti, in parrocchia». Con la sua testimonianza, dunque, don Pino «ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio». 
Don Puglisi, “figura bellissima”, è stato ucciso “in odium fidei”, per odio della fede da parte di chi lo ha assassinato, ottolinea il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei:”E’ stato ucciso in quanto sacerdote che faceva il suo dovere, specialmente sul piano educativo delle giovani generazioni. E dunque è un martire».  

mercoledì 22 maggio 2013

23 maggio 1992. Non vorremmo più vedere uomini delle mafie nascosti dietro le maschere del potere


Le parole scritte da Salvo Vitale riportano alle parole pronunciate da Rosaria Schifani, la vedova di Vito Schifani, uno degli agenti della scorta di Giovanni Falcone, quando si rivolse agli uomini della mafia presenti nella cattedrale di Palermo.   Le parole di Salvo Vitale, amico fraterno di Peppino Impastato, riecheggiano anche le parole  di quella ragazzina siciliana che si chiamava Rita Atria: Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi."



Lo sapevamo anche noi che gli uomini della mafia erano presenti, erano là, in quella chiesa,  davanti alle bare di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo.  
Non vorremmo più vedere uomini delle mafie nascosti dietro le maschere del potere. 


Non li voglio vedere

Stanno preparando il vestito buono per la festa.
Passeranno la notte a lustrarsi le piume.
E domani, l’uno dopo l’altro, con una faccia 
che definire di bronzo è un eufemismo, 
correranno da una parte all’altra della penisola 
cercando i riflettori della tivvù, 
il microfono dei giornalisti, 
inondandoci della loro vomitevole retorica 
su twitter, facebook, e in ogni angolo della rete; 
loro, tutti loro, gli assassini di Giovanni Falcone, 
della moglie, e dei tre agenti della sua scorta, 
saranno proprio quelli 
che ne celebreranno la memoria.
Firmandola. Sottoscrivendola.

Faranno a gara per raccontarci come combattere 
ciò che loro proteggono.
Spiegheranno l’immensa eredità 
di un magistrato coraggioso; loro, proprio loro 
che ne hanno trafugato il testamento, 
alterato la firma, 
prodotto un perdurante falso ideologico 
che ha consentito ai loro partiti 
di rinverdire i fasti di un eterno potere.
Li vedremo tutti in fila, schierati come i santi.
Ci sarà addirittura chi verserà qualche calda lacrima, 
a suggello e firma dell’ipocrisia di stato, 
di quel trasformismo vigliacco e indomabile 
che ha costruito nei decenni 
la mala pianta del cinismo e dell’indifferenza, 
l’humus naturale dal quale tutte le mafie attive
traggono i profitti delle loro azioni criminali.

Domani, non leggerò i giornali, 
non ascolterò le notizie, non seguirò i telegiornali,
e men che meno salterò come una pispola allegra 
da un mi piace all’altro su facebook
a commento di striscette melense e ipocrite 
che inonderanno la rete 
con una disgustosa ondata 
di piatta e ipocrita demagogia.

Domani, uccideranno ancora Giovanni Falcone, 
sua moglie e la sua scorta.

E io non voglio farne parte.
Per questo ne parlo oggi, con un giorno di anticipo.
Seguitano a ucciderlo, ogni giorno,
nella società civile e in parlamento.
Per questo vogliono museizzarlo, 
trasformandolo in una specie di santino 
da usare ad ogni buona occasione.
Perché sono proprio loro gli eterni assassini, 
questa è la verità, 
altrimenti non ci ritroveremmo, venti anni dopo, 
nella stessa identica situazione di allora.

Domani, vestiti a festa,
faranno a gara a chi lo commemora e piange di più.

Tutti i funzionari pubblici della repubblica, 
anche quelli del più piccolo e povero comune, 
tutti quelli che hanno preso tangenti
privilegiando l’interesse personale 
a quello del bene pubblico, 
sono quelli che seguitano ogni giorno 
ad assassinare Giovanni Falcone, 
sua moglie e i tre agenti della scorta.

Quelli che hanno reso vana e vacua la loro morte.
Gli imprenditori che partecipano alle gare
sostenendo che bisogna pagare le tangenti
se si vuole sopravvivere sul mercato. 
I direttori editoriali responsabili delle case editrici, 
delle società di produzione cinematografica, 
televisiva e radiofonica, 
che riconoscono e accolgono come autori 
solo persone presentate, suggerite, spinte e imposte 
dalle segreterie dei singoli partiti politici 
che poi provvederanno a fornire i loro buoni uffici
facendo piovere su di loro sovvenzioni statali 
pagate con le nostre tasse. 
Loro, nessuno escluso, sono gli assassini 

Io non li voglio vedere. 
Non voglio vedere le loro facce ipocrite.
Sono assassini tutti quelli che dicono
“lo fanno tutti, che cosa ci vuoi fare?”. 
Così come lo sono tutti coloro che si trincerano 
dietro il “ma io ho una famiglia”
e fingono di non sapere che esiste la frase 
“no, io queste cose non le faccio”. 

Gli assassini sono tutti i cittadini italiani 
che nel silenzio garantito dalla privacy, 
cautelati dal fatto di non avere testimoni, 
nel segreto della cabina elettorale, 
mettono una crocetta su un certo simbolo, 
su un certo nome,
perché sanno che quella lista e quella persona, 
domani, a elezioni avvenute (e vincenti) 
risolveranno il mio problemino, 
o daranno il posto a mio figlio, 
o sistemeranno mia sorella.

Sono decine di milioni gli assassini 
Perché la mafia non è una persona, 
non è una cosa astratta.
La mafia è un’idea dell’esistenza.
La mafia è una interpretazione della vita, 
e chi vi aderisce è un mafioso.
Anche se non lo sa.
Anche se non se lo vuole sentir dire.
Sempre mafioso è.

L’intera classe politica di questo paese,
intellettuale, mediatica, imprenditoriale, 
partecipò al processo di delegittimazione 
di Giovanni Falcone, isolandolo, diffamandolo, 
e voltandosi dall’altra parte 
quando sapevano che stavano arrivando i killer. 
Così come fecero poi con Paolo Borsellino 
e con tutti coloro 
che ebbero l’ardire di armarsi di coraggio
e combattere contro la mafia attiva. 
Le stesse persone che allora scelsero di non guardare,
oggi sono in prima fila 
a commemorarne la scomparsa.
Sono tutti loro i veri assassini.
Io non li voglio né vedere né ascoltare.

Perché i dirigenti mafiosi sono affaristi, 
e non corrono il rischio di mettersi nei guai 
uccidendo gli affari, se non sanno di avere 
un territorio amico che li sorregge.
La mafia, di per sé, non esiste, esistono i mafiosi.
La mafia è la somma dei singoli comportamenti
che ne determinano l’esistenza.
E noi siamo un paese di mafiosi.

Purtroppo, non è uno stereotipo, 

è la tragica realtà con la quale noi tutti 
dobbiamo avere il coraggio di fare i conti.
Perché questi sono i veri conti, 
non lo spread, che è una invenzione astratta.
Potete aderire a qualunque ideologia, 
essere di destra o di sinistra, 
anarchici o democratici, conservatori o progressisti,
amanti di Keynes, di Marx 
o della teoria della Moneta Moderna, 
non cambia nulla, fintantoché non cambieremo 
il nostro comportamento individuale, 
quotidiano, esistenziale,
e prenderemo atto di ciò che siamo 
per poterci evolvere e liberarci di questo cancro 

Ogniqualvolta un cittadino italiano 
rinuncia ad esercitare il libero arbitrio, 
e rinuncia all’ambizione e al tentativo 
(anche se estremo e disperato) 
di farsi valere per i propri meriti, 
per le proprie competenze tecniche, 
privilegiando la facile e sicura strada 
della mediazione politica e della malleveria, 
per prendere una scorciatoia 
garantita dal sistema del malaffare, 
il registratore di cassa della mafia 
fa clang e segna un incasso.
 
Perché sa che, domani,
quel cittadino sarà un mafioso sicuro.
Anche se non lo sa.
E’ una porta alla quale andranno a bussare,
sicuri che verrà subito aperta.
Loro, lo sanno benissimo, che è così.
Lo sappiamo tutti.

Non voglio vedere i loro telefilm celebrativi 
interpretati da attori raccomandati, 
prodotti da aziende mafiose, 
e distribuiti alla nostra visione 
da funzionari mafiosi in doppiopetto. Proprio no.

Domani, dedicherò la giornata 
al tentativo di ripulirmi spiritualmente, 
cercando di fare ordine interiore, 
per eliminare ogni residuo di retro-pensiero mafioso, 
che alligna dentro di me, 
come dentro la mente di ogni singolo italiano, 
anche quando non lo sa. 
Perché il paese è così. 
Altrimenti, non staremmo, dopo venti lunghi anni, 
e una caterva di governi inutili, 
nella stessa identica situazione di allora.

Salvo Vitale

lunedì 20 maggio 2013

Ventun anni dopo i giorni di Falconel’Italia è ancora lontana dai suoi ideali.


Impegnarsi oggi nella cultura antimafia significa occuparsi, a nostro parere, non solo dei mafiosi ma anche dei comportamenti mafiosi fatti propri anche da parte di coloro che mafiosi - nel senso stretto del termiìne- tali non sono:"(...) Noi dell’antimafia sociale affrontiamo ogni giorno e diretta­mente dei "poteri". Non delle ideologie, non delle costruzioni complesse, ma semplicemente dei "potenti" che comandano e vo­gliono continuare a farlo(...)"

Fonte : I Siciliani
I giorni di Falcone
Ventun anni dopo i giorni di Falcone – che per noi antimafiosi segnano una svolta nella storia – l’Italia è ancora lontana dai suoi ideali. Una parte del popolo è molto regredita sul piano ci­vile. E quella che invece resta fedele alla democrazia è estrema­mente divisa e priva di riferimenti politici e organizzativi ade­guati.
La crisi economica – dovuta a una lunga gestione rozza e egoi­sta – ha la sua parte in questo. Ma pesano ancor più i lunghi anni di democrazia “liquida”, di politica-spettacolo, di leader “carismatici”, di delega a qualcun altro. Quel che avevano con­quistato i cittadini, lo perdono gli spettatori. In questo senso la crisi è “morale” – non come moralità astratta, ma come insieme di valori comuni – e non solo politica o istituzionale.
L’antimafia, in tutti questi anni, ha fatto da collante per i mi­gliori. Indicando un servizio comune, un’etica condivisa, un modo militante e civile di vivere il bene comune. Per due gener­azioni di giovani, essa è stata una scuola e una Città.
Adesso, probabilmente, è arrivato il momento di fare un passo avanti. Portare questi valori in un ambito più vasto, organizzarne la realizzazione pratica, farne – in una parola – una “politica” militante. Non per dividere ancora, ma anzi per unire.
E di unità c’è bisogno, fra i cittadini non-sudditi, in questo momento. Sono la maggioranza, ma non riescono a farsene uno strumento. Le loro lotte “plebee”, che sono numerosissime, con­tinuamente ondeggiano fra protesta senza seguito e ri-assorbi­mento in questa o quella lotta “patrizia” di palazzo.
L’elementare concetto dell’unità fra i poveri, della solidarietà fra vite simili e simili interessi, sembra ancora un’utopia strana.
Noi dell’antimafia sociale affrontiamo ogni giorno e diretta­mente dei "poteri". Non delle ideologie, non delle costruzioni complesse, ma semplicemente dei "potenti" che comandano e vo­gliono continuare a farlo. Questa è una buona metafora, e anche un modello, che potrebbe utilmente estendersi all’intera società.
La rete, i beni comuni, la mobilitazione a-ideologica su singoli obiettivi sono altri modelli che s’intrecciano ad esso, e che nella nostra pratica noi cerchiamo di unire sempre più strettamente.
Da qui la buona politica, che verrà coi suoi tempi. Dobbiamo accelerarli il più possibile, perché la crisi – lasciata a se stessa – è inumana. E lancia segnali “non-politici” (in realtà profonda­mente politici) di disumanità e de-civilizzazione, come questo: venticinque donne, nei primi quattro mesi del 2013, uccise al­trettanti uomini. Bisogna fare presto.
I Siciliani

Forse ( certamente) di quella Agenda Rossa alzata al cielo cominciano ad avere paura.

Noi cittadini italiani siamo spettatori (impotenti, ignavi, complici) di un dramma che continua a consumarsi sotto i nostri occhi. Un dramma che ha visto vittime, esecutori e mandanti.di una strage, quella di Via D'Amelio,  nella quale uno stato nazionale non ha saputo impedire che si uccidesse, dopo Giovanni Falcone, l'uomo che ne aveva raccolta l'eredità professionale ed etica. 
A distanza di ventuno anni, sabato scorso, il quotidiano La Repubblica riportava una immagine di quella che veniva detto essere l'Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Di seguito riportiamo la lettera con cui Salvatore Borsellino, commenta e replica al presunto "scoop giornalistico".
"Non avrei avuto intenzione di commentare in alcuna maniera lo squallido preteso "scoop" di Francesco Viviano sulla identificazione dell'Agenda Rossa di Paolo Borsellino trafugata in via D'Amelio, pubblicato ieri su Repubblica. Non lo avrei fatto se non avessi letto oggi sul Giornale un ancora più squallido articolo di Giancarlo Chiocci nel quale si prende a pretesto questo presunto "ritrovamento" per vomitare tutta una serie di accuse contro i magistrati che avrebbero, andando "a caccia di fantasmi", per anni "linciato" Giovanni Arcangioli soltanto perchè era stato fotografato e filmato mentre, con la borsa di Paolo in mano di allontanava dal luogo della strage. Quella borsa, nella quale, per concorde testimonianza della moglie e dei figli di Paolo, quest'ultimo aveva sicuramente riposto la sua agenda prima di partire da Villagrazia di Carini per il suo appuntamento con la morte. La borsa venne poi riposizionata da qualcuno sul sedile posteriore della macchina blindata di Paolo ma in tanto l'agenda era stata trafugata.
Seguento fedelmente il copione predisposto da Viviano, lo pseudo giornalista del "Giornale" da per scontato che l'agenda che compare nel video, secondo lui fotografata vicino al cadavere di Paolo, fosse quella appartenente al giudice. Non gli passa neanche per la mente di verificare che non del cadavere di Paolo si tratta, ma di quello che resta di Emanuela Loi, che la pretesa agenda di trova in una posizione assolutamente incompatibile con la reale posizione del cadavere di Paolo, che è stato sbalzato dall'onda d'urto dell'esplosione all'interno di quello che resta del giardinetto antistante l'edificio di Via D'Amelio. E come potrebbe un oggetto che Paolo avesse tenuto sotto il braccio trovarsi invece nella direzione opposta a quella dove era stata piazzata la imbottita di Semtex? La Citroen che compare nel video di trova infatti sulla via, dall'altro lato del marciapiede. Ma per vomitare le sue accuse, per affermare che l'agenda non possa altro che essere stata "portata via dall'azienda addetta alla pulizia della strada" a Chiocci, dimenticando che non di "pulizia della strada" si trattava, ma dalla raccolta dei pezzi di carne disseminati sul selciato in mezzo a fiumi di sangue, non passa neppure per la testa di verificare nella foto le reali dimensioni dell'oggetto spacciato per l'Agenda Rossa di Paolo. Lo abbiamo fatto noi, confrontandolo semplicemente con le dimensioni di una scarpa dato che nel video la si vede spostata da una persona che indossa dei mocassini. Non di un'agenda si tratta, come appare dalla nostra fotografia ma di un piccola agendina che oltretutto, se fosse stata tenuta sotto il braccio o in mano da Paolo non potrebbe essere nelle condizioni cui si trova ma dovrebbe essere, se non carbonizzata, almeno annerita dal fumo come lo era il viso di Paolo quando Lucia lo deterse con un fazzoletto scoprendo il suo sorriso che non riuscirono a cancellare sotto i baffi anneriti dal fumo.
Ma questo non è importante per Chiocci, il copione prevede soltanto di potere utilizzare queste falsità per sollevare la nebbia, i dubbi, il fumo, attorno a quello che ancora, nei precedenti processi che non erano mai arrivati alla fase dibattimentale, bloccati sul nascere da altra nebbia, altri dubbi, altro fumo, non era mai accaduto. L'esame in dibattimento di testi quali il caposquadra dei vigili, Farina, il capo scorta di Ayala, Farinella, l'allora capitano dei Carabinieri, Arcangioli, l'allora parlamentare, Ayala. Da queste deposizioni, se non fossero infarcite, almeno quelle degli ultimi due, di "non ricordo", "non posso ricordare", di assurdi richiami, almeno per il secondo, a pretesi "clamorosi errori di verbalizzazioni", si potrebbero finalmente fare dei passi avanti sulla strada della verità. Ma a Chiocci interessa soltanto attaccare e denigrare chi fa "dibattiti, cortei e manifestazioni con agende rosse al cielo". A Chiocci interessa soltanto spargere dubbi, depistare. Forse di quella Agenda Rossa alzata al cielo cominciano ad avere paura.

sabato 18 maggio 2013

"Forse saranno mafiosi quelli che mate quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri". Paolo Borsellino.


"Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri". Paolo Borsellino.

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone conoscevano perfettamente il risultato a cui li avrebbe condotti il lottare contro la mafia, nel modo in cui loro l'avevano combattuta. 
L'immagine dell'agenda di Paolo Borsellino -agenda da cui il giudice non si separava mai- scomparsa subito dopo la strage di Via D'Amelio ricompare in un documento filmato girato nell'immediatezza dell'attentato: "(...) Quell'agenda, pensano i magistrati, avrebbe potuto far luce sul reale movente della strage e sulle possibili responsabilità istituzionali a fianco di Cosa nostra. Perché il sospetto dei Pm di Caltanissetta è che Paolo Borsellino nelle ultime settimane della sua vita avesse scoperto la trattativa tra Stato e Mafia".
Perchè quell'immagine viene "svelata" ora? Nella storia del rapporto secolare fra stato e mafia, poche cose sono accadute "per caso"!



Fonte : LA Repubblica. articolo di FRANCESCO VIVIANO

Ecco l'agenda di Borsellino dopo la strage: nelle foto mai viste la traccia del diario sparito
Una macchia di colore nitida, rossa, vicino a un corpo straziato. E un uomo misterioso: Paolo Borsellino non si separava mai dalla sua agenda rossa con lo stemma dell'Arma dei carabinieri: e fra quei fogli, annotava i suoi appunti più riservati dopo la morte dell'amico Giovanni Falcone

Il fotogramma che mostra l'agenda di Borsellino dopo la strage
L'AGENDA rossa di Paolo Borsellino era lì dove avrebbe dovuto essere. A terra, integra, accanto al corpo carbonizzato del magistrato ucciso da un'autobomba in via D'Amelio insieme ai cinque uomini della sua scorta. L'agenda era lì, ben visibile ancora pochi minuti dopo l'esplosione, almeno fino a quando un uomo, non in divisa, si avvicina al corpo di Paolo Borsellino e, con il piede sinistro alza un pezzo di cartone che copre l'agenda rossa.  


Il documento video, di cui qui accanto si può vedere un fotogramma, è una prova schiacciante, un documento finora inedito tratto da due ore di girato nell'immediatezza della strage. Immagini in mano agli inquirenti da 20 anni: ma al tempo la presenza dell'agenda nelle immagini deve essere sfuggita agli investigatori. 
In quel filmato un'agenda rossa si vede nitidamente a fianco del corpo carbonizzato del magistrato. È quella di Paolo Borsellino? Certo, difficile pensare a una singolare coincidenza e che sia l'agenda di qualcun altro. Quell'agenda, pensano i magistrati, avrebbe potuto far luce sul reale movente della strage e sulle possibili responsabilità istituzionali a fianco di Cosa nostra. Perché il sospetto dei Pm di Caltanissetta è che Paolo Borsellino nelle ultime settimane della sua vita avesse scoperto la 
trattativa tra Stato e Mafia. 


giovedì 16 maggio 2013

Si costituisce Giuseppe Pesce. Stanco di essere un pezzo della "montagna di merda"?


Fonte : La Stampa

’ndrangheta, si costituisce il boss Pesce


il latitante si è costituito ai carabinieri di Rosarno

È il reggente della ’ndrina calabrese che, partita da Rosarno, è riuscita
a conquistare anche il Nord Italia
Si è conclusa la latitanza del boss della `ndrangheta Giuseppe Pesce, di 33 anni, reggente dell’omonima cosca di Rosarno, una delle più note ed importanti dell’organizzazione criminale calabrese. 
Pesce si è presentato ai carabinieri di Rosarno accompagnato dai suoi legali, gli avvocati Gregorio Cacciola e Benito Infantino. «Basta, sono stanco di scappare, meglio finirla qui», ha detto Pesce ai suoi difensori, chiedendo loro di accompagnarlo dai carabinieri che lo hanno subito portato nel carcere di massima sicurezza di Palmi. 

Cade così un altro importante tassello del potere criminale della cosca Pesce, già decimata dagli arresti e dalle sentenze dei processi portati avanti con estrema determinazione dalla Dda di Reggio Calabria e, in particolare, dalla pm Alessandra Cerreti, che dei Pesce conosce, in ogni particolare, storia ed organigrammi. 
Proprio il 3 maggio scorso si è era concluso a Palmi il processo contro la cosca Pesce con la condanna di 42 imputati a pene da 28 anni a sei mesi di reclusione. La sentenza era stata emessa dal Tribunale di Palmi dopo una camera di consiglio protrattasi per 17 giorni. Giuseppe Pesce, in quel processo, è stato condannato a 16 anni di reclusione per associazione mafiosa. 

Ma il dibattimento più importante in cui è imputato Giuseppe Pesce è quello tuttora in corso, sempre a Palmi, in cui è accusato formalmente di essere il reggente a tutti gli effetti della cosca. Ruolo che gli è stato assegnato dal fratello Francesco, di 35 anni, con un «pizzino» trovato in carcere, essendo l’unico maschio della famiglia ancora libero. 

Giuseppe Pesce è cugino della pentita Giuseppina Pesce, che con le sue rivelazioni ha consentito alla Dda di Reggio Calabria di smantellare la storica cosca di Rosarno con una lunga serie di arresti e retate. 
La decisione del capoclan di porre fine alla sua latitanza trae origine, soprattutto, dall’arresto della moglie, Ilenia Bellocco, di 24 anni, bloccata dai carabinieri il 5 maggio scorso con l’accusa di aiutare il marito a tenere i contatti con gli altri affiliati alla cosca. In più, il 16 aprile scorso, i carabinieri avevano arrestato il luogotenente di Giuseppe Pesce, Domenico Sibio, di 35 anni, che avrebbe avuto un ruolo strategico per la latitanza del boss. Attorno al latitante, così, era stata fatta «terra bruciata». Tanto da indurlo stasera, nella condizione di oggettiva debolezza in cui ormai era venuto a trovarsi, a consegnarsi ai carabinieri.  

mercoledì 15 maggio 2013

L'agenda rossa di Borsellino: Non è tollerabile che dentro le istituzioni qualcuno stia zitto".


Sergio Lari,capo dei pubblici ministeri di Caltanissetta: "Sono convinto che la scomparsa sia strettamente collegata ai misteri della trattativa fra alcuni pezzi di Stato e Cosa nostra. Chi sa, parli. Non è tollerabile che dentro le istituzioni qualcuno stia zitto".


Fonte : La Repubblica

Caccia all'agenda rossa di Borsellino
"In queste immagini l'uomo che l'ha rubata"

Un video inedito nelle mani degli investigatori: chi l'ha trafugata è in qui insieme a passanti, magistrati e poliziotti. I pm sono convinti: "Nelle carte del giudice i segreti della trattativa"

L'ultimo mistero sulla famosa agenda che il procuratore Borsellino teneva sempre con sé si nasconde probabilmente in un video di una decina di minuti che gli investigatori della Dia e della polizia scientifica hanno consegnato ai magistrati di Caltanissetta. Un filmato fatto di frammenti messi insieme incastrando riprese di operatori televisivi di Rai, Canale 5, emittenti private e anche di qualche videoamatore. "Tutto quello che esiste come immagini di quel pomeriggio adesso ce l'abbiamo e siamo certi che qualcosa troveremo", dice il procuratore capo della repubblica Sergio Lari. Aggiunge poi il procuratore: "Non è stata rubata dalla mafia. Qualcuno all'interno delle istituzioni sa dov'è finita l'agenda di Paolo".
Fra quelle mille facce che compaiono e scompaiono in pochi attimi dal filmato, gli inquirenti sono convinti di individuare il ladro dell'agenda rossa. I loro sospetti si sono concentrati su un funzionario degli apparati di sicurezza che era lì, sul luogo della strage. Dal quartiere generale dell'intelligence italiana sono stati spediti alla procura di Caltanissetta alcuni album con i volti degli agenti in servizio a Palermo nell'estate del 1992, le loro foto saranno confrontate con quelle degli uomini che si vedono nel filmato ricostruito dalla Scientifica. È questa adesso l'ultima pista per tentare di scovare il ladro dell'agenda rossa. 
Dalle carte dell'inchiesta sull'uccisione di Paolo Borsellino, i procuratori hanno ripescato un verbale di interrogatorio di un poliziotto della "squadra volanti" arrivato fra i primi in via Mariano D'Amelio dopo l'esplosione. Una testimonianza che non risale al 1992, ma a soli alcuni anni fa. Ha dichiarato l'ispettore Giuseppe Garofalo: "Ricordo di avere notato una persona, in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell'auto. A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l'ho vista con la borsa in mano, o comunque nei pressi dell'auto del giudice". E ancora: "Di sicuro, io ho chiesto a questa persona chi fosse, per essere interessato alla borsa del giudice. Lui mi ha risposto di appartenere ai servizi. Posso dire che era vestito in maniera elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori".
È lui, l'uomo che stanno cercando. L'agenda rossa di Paolo Borsellino - un regalo dell'Arma dei carabinieri - era dentro una borsa di pelle, il giudice l'aveva sistemata dietro il sedile del suo autista, sulla Croma blindata. La borsa del procuratore è stata recuperata con tutti gli oggetti personali, tutti tranne l'agenda rossa. La prima relazione di servizio sul ritrovamento di quella borsa risale a cinque mesi dopo la strage, è firmata da un altro ispettore della "squadra volanti" della polizia, Francesco Paolo Maggi, lo stesso che nel pomeriggio del 19 luglio l'ha portata alla squadra mobile e consegnata al dirigente Arnaldo La Barbera.È un altro dei "gialli" della strage. 
Perché tutto questo tempo per redigere un verbale sulla borsa? Le nuove indagini dei procuratori di Caltanissetta hanno ristretto l'arco di tempo in cui è stata rubata l'agenda. Prima le indagini si erano concentrate tra le 16.58 - l'ora dell'esplosione - e le 17.20 - il momento in cui la borsa di pelle è stata vista, fotografata e ripresa dalle telecamere fra le mani di un ufficiale dei carabinieri - ma adesso tutta l'attenzione è dedicata ai quindici minuti che vanno dalle 17.15 alle 17.30. Uno spostamento per polarizzare l'investigazione sulle immagini raccolte nel video della Dia e della polizia scientifica.
Alle 17.20, infatti, l'allora capitano Giovanni Arcangioli viene ripreso con la borsa di Paolo Borsellino mentre cammina in via Mariano D'Amelio e si dirige verso via Autonomia Siciliana. L'ufficiale è inquisito in un primo momento per avere rubato l'agenda rossa (raccontò di averla avuta da due magistrati, che però lo smentirono), ma poi è stato prosciolto: non c'è prova che in quel momento l'agenda rossa si trovasse ancora nella borsa. Questo ha scritto un giudice, e la Cassazione ha confermato. Ieri, Arcangioli è stato ascoltato al processo Borsellino quater. E ha ribadito la sua versione: "Non so nulla di quell'agenda rossa, nella borsa non c'era alcun elemento utile per le indagini". 
Ora l'indagine è tutta intorno ai cinque minuti precedenti all'immagine che fissa la borsa nelle mani di Arcangioli e sui dieci successivi, quando la zona di via D'Amelio viene recintata. Chi, prima o dopo di quell'ufficiale, ha prelevato e trasportato la borsa del procuratore ucciso? L'agenda rossa è stata prelevata prima o dopo delle 17.20? 
Così da qualche settimana è ripartita l'inchiesta - con questo video - sulla scomparsa di quello che viene considerato il documento-chiave non solo della strage di via Mariano D'Amelio, ma anche della strage di Capaci. A esplorare i misteri del 19 luglio è un pool, con Lari anche Nico Gozzo, Gabriele Paci e Stefano Luciani. 
Nell'agenda rossa il procuratore aveva registrato tutto ciò che era accaduto dalla morte di Giovanni Falcone. 
Poi qualcuno l'ha rubata. Perché? 
"Sono convinto che la scomparsa sia strettamente collegata ai misteri della trattativa fra alcuni pezzi di Stato e Cosa nostra", dice il capo dei pubblici ministeri di Caltanissetta. Sergio Lari lancia un appello: "Chi sa, parli. Non è tollerabile che dentro le istituzioni qualcuno stia zitto".

martedì 14 maggio 2013

L'omofobia si combatte a scuola ed è l'Amore che cambia il Mondo


L'Amore cambia il Mondo



Fonte: l'Espresso

L'omofobia si combatte a scuola

di Loredana Pianta
A pochi giorni dalla ricorrenza della giornata internazionale contro l'omofobia (17 maggio), in una scuola piemontese prende il via il primo esperimento di educazione alle diversità di genere. Lo spunto? Due ragazze lesbiche che si sono baciate in corridoio e le reazioni di docenti e compagni
(14 maggio 2013)
Due ragazze lesbiche che si danno un bacio nei corridoi della scuola, il rimprovero di un insegnante, la ribellione di alcuni studenti e i cartelloni di solidarietà nei confronti delle due ragazze appesi fuori dalle classi: tutto questo accadeva un anno e mezzo fa al Liceo G.F. Porporato di Pinerolo, nel torinese. Un episodio negativo si è però trasformato in una risorsa educativa per la scuola. Un gruppo misto di alunni e docenti lgbt e etero, infatti, ha dato vita al progetto "Welcome" contro l'omofobia.
Il modello è quello delle alliance americane e mira a diventare un esempio nazionale. Il team, dopo essere stato formato da esperti esterni sulle tematiche di genere, si occupa oggi di diffondere nelle classi una corretta informazione attraverso dibattiti e cineforum.
Gli incontri con gli studenti hanno avuto momenti di grande intensità emotiva. Nell'ambito degli incontri "Welcome", due ragazzi hanno fatto coming out davanti ai propri compagni. Una prova di fiducia nei confronti degli animatori del progetto, che oggi sognano di realizzarlo anche in altre scuole italiane.