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lunedì 5 novembre 2012

Scene dal processo "Minotauro": la ’ndrangheta in Piemonte


Si celebra il processo alla 'ndrangheta calabrese in Piemonte, mentre imputati e parenti si comportano come fossero sulla spiaggia  di Pizzo o a fare il pic-nic nei boschi delle Serre calabresi.

Fonte: La Stampa

La ’ndrangheta a processo

Applausi, panini e baci



Oltre i vetri blindati Un’immagine della maxiaula all’interno del carcere delle Vallette dove è in corso il processo per gli arrestati nell’Operazione Minotauro: sui due lati gli spazi riservati agli imputati e un muro di vetri blindati divide anche il pubblico e i parenti

Il presidente della corte: ”Ci vuole rispetto, non siamo a teatro”
NICCOLÒ ZANCAN
TORINO
A un certo punto parte un applauso. Sono i parenti, giù al fondo dell’aula bunker, fra pacchetti di patatine finiti e bicchierini di plastica, oltre a una barriera di vetro antiproiettile. Ogni tanto mandano saluti agli imputati nelle gabbie, sorrisi e baci. Ma adesso no, all’improvviso applaudono l’avvocato Carlo Maria Romeo, mentre incalza il tenente colonnello dei carabinieri Nicola Fozzi. 
È lui il primo teste del processo Minotauro. Lui che, in qualità di comandante del reparto operativo, ha firmato un’informativa di 5570 pagine. Un documento sconfinato e cruciale, dove sono spiegate tutte le ramificazioni torinesi della ’ndrangheta. Ma è ovvio che non possa sapere tutto lui, il colonnello Fozzi. Stiamo parlando di tre anni di indagini, 4500 intercettazioni agli atti, 9 gruppi criminali sotto osservazione, intrecci fra Piemonte e Calabria, 150 arrestati. Gli avvocati gli fanno domande del tipo: «Quanti sono i Nicodemo attenzionati?». «Quante persone soprannominate Nico?». «Qual è il sovrapprezzo sulle arance vendute agli affiliati per fare cassa?». Gli chiedono se può spiegare la differenza fra locali e locali distaccati della ’ndrangheta. Fino a quando l’avvocato Romeo, dice al microfono: «Perché a noi non risponde?».  

È in quel momento che i parenti applaudono, come se avessero segnato un gol o qualcosa del genere. Allora il presidente della Corte, il giudice Paola Trovati, interviene con decisione: «Ci vuole rispetto. Qui non siamo a teatro. Ci sono delle persone detenute, non c’è proprio niente da applaudire».  

Qui siamo dentro al più grande processo torinese degli ultimi anni per criminalità organizzata di stampo mafioso, nel luogo sacro dove tutti trovano voce. Dove ogni prova verrà vagliata, ogni eccezione considerata. E dove per la prima volta è presente in aula anche il sindaco di Leinì, Nevio Coral. Il suo Comune è stato sciolto per mafia e commissariato, lui è tutt’ora agli arresti domiciliari, ma non ci sta: «Di fronte a un’ingiustizia così grande non c’è molto da dire - si sfoga - sono venuto in aula apposta per potermi difendere, questo è il luogo».  

Il gelo sale dai pavimenti del casermone, dietro al carcere Lorusso e Cutugno. Nelle gabbie, a piccoli gruppi, stanno divisi uomini, anziani e ragazzi. Settantacinque imputati. Ridono fra loro quando non sono d’accordo. Braccia conserte. Reclamano più volume dall’impianto che diffonde le voci al microfono. Indossano tute, scarpe da ginnastica color oro, giubbotti scuri. Qualcuno mangia un panino. Mentre il colonnello Fozzi - primo di 1500 testimoni citati - ha il compito di inquadrare il lavoro investigativo. Insomma, deve spiegare all’aula come siamo arrivati qui.  

«Tutto è iniziato dall’omicidio dell’incensurato Giuseppe Donà, nella cui abitazione abbiamo sequestrato un chilo e mezzo di stupefacenti». Da un omicidio per droga e soldi. Alla scelta di collaborare di uno dei principali indagati. 
È il 2005. Rocco Varacalli da Natile di Careri sta per diventare il primo pentito di ’ndrangheta. 
E mentre mette a verbale pagine e pagine di geografia criminale, svela faide, omicidi, intrecci con la politica e interessi sugli appalti in provincia di Torino, accadono altri due fatti apparentemente marginali. Un imprenditore di Caselle e un carrozziere di Ivrea denunciano un tentativo di estorsione. Le indagini successive finiranno per incrociare molti degli stessi nomi fatti da Varacalli. Ed è così che i carabinieri si ritrovano per tre anni ad ascoltare le voci delle famiglie Iaria, Agresta, Gioffrè e Catalano, per scoprire il mondo che si agita intorno: picciotti, sgarristi, padrini, contabili, ’ndrine e bastarde.  

Il pm Antonio Sparagna chiede a Fozzi di spiegare quando hanno avuto la prova dell’appartenenza di Varacalli alla ’ndrangheta. «Nella conversazione 5610 del 25 giugno - risponde Fozzi - Gioffrè si rammarica di aver raccontato a Varacalli dettagli di una faida calabrese». Varacalli è credibile, per gli investigatori. Ci sono già 58 condanne con rito abbreviato. Ma adesso si ricomincia da capo. «Varacalli è un millantatore, un bugiardo», ci dice un ragazzo affacciandosi dalla gabbie. «Come potete credere a uno così?». Proprio questo cercherà di chiarire il processo. Dall’inizio. Caso per caso. Prova per prova. Come deve essere.  

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