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domenica 13 dicembre 2020

Verità e Giustizia per Giulio Regeni. La madre: "Su quel viso ho visto tutto il male del mondo"

Giulio Regeni, dottorando dell'Univeristà di Cambridge, viene rapito il 25 gennaio 2016 -giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir- ed il suo corpo, massacrato, viene fatto ritrovare il 3 febbraio La farsa ignobile del governo egiziano comincia immediatamente con le dichiarazioni del generale Khaled Shalabi il quale dichiara che Giulio Regeni era stato vittima di un semplice incidente stradale. A quella dichiarazione “ignobile” altre ne seguiranno, mentre l'uccisione di Giulio Regeni toglie la maschera al governo egiziano dominato da Abdel Fattah al-Sisi, un governo che fa rapire e torturare sino alla morte centinaia di suoi oppositori, gettando un poco di luce sui tanti “Giulio Regeni egiziani” rapiti, torturati, uccisi, nel silenzio ipocrita della comunità internazionale. 

E la comunità internazionale sarebbe chiamata a combattere pure per la scarcerazione di Patrick Zaki. lo studente egiziano dell'Università di Bologna arrestato nel febbraio di quest'anno, con l'accusa di propaganda sovversiva, e la cui "custodia cautelare" è stata rinnovata di altri 45 giorni pochi giorni orsono.

Paola Regeni: "Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si è riversato su di lui."

Il 29 marzo 2016 Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, indicono una conferenza stampa che si svolge nella sala del Senato dedicata alle vittime dell'attentato di Nassiriya. Paola Regeni, madre di Giulio: "L'ultima foto che abbiamo di Giulio è del 15 gennaio, il giorno del suo compleanno, quella in cui lui ha il maglione verde e la camicia rossa. Non si vede, ma davanti a lui c'è un piatto di pesce e intorno gli amici, perché Giulio amava divertirsi. Il suo era un viso sorridente, con uno sguardo aperto. E' un'immagine felice". Poi ce un'altra immagine. Quella che con dolore io e Claudio cerchiamo di sovrapporre a quella in cui era felice, quella all'obitorio. L'Egitto ci ha restituito un volto completamente diverso. Al posto di quel viso solare e aperto c'è un viso piccolo piccolo piccolo, non vi dico cosa gli hanno fatto. Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si è riversato su di lui. All'obitorio, l'unica cosa che ho ritrovato di quel suo viso felice è il naso. Lo ho riconosciuto soltanto dalla punta del naso". Qui le parole di Paola Regeni. 

Il 10 dicembre scorso nell'atto di chiusura delle indagini, i pm di Roma ed il procuratore capo Michele Prestipino ricostruiscono gli ultimi giorni di Giulio Regeni, catturato e torturato a morte dalla National Security egiziana dal 25 gennaio al 3 febbraio 2016. Torture e sevizie con oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni che gli causarono “acute sofferenze fisiche” portandolo lentamente alla morte. Michele Prestipino: “Abbiamo acquisito elementi di prova univoci e significativi (su quattro agenti egiziani, ndr). Questo è un risultato estremamente importante e non scontato. Abbiamo fatto di tutto per accertare ogni responsabilità, lo dovevamo a Giulio e all’essere magistrati di questa Repubblica. Ringrazio la famiglia di Giulio per la tenacia con la quale ha saputo perseguire le proprie ragioni”.

Nelle carte della Procura emerge anche il nome di colui che, secondo l'accusa, è stato il carceriere, l'aguzzino e il boia del giovane ricercatore: si tratta del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif.


Corrado Augias: "In memoria di Giulio Regeni restituisco la legion d'Onore alla Francia"

E' di questi giorni l'ennesima prova dell'ipocrisia di cui scrivevamo prima: nell'ambito di un incontro durante il quale si doveva affrontare anche il tema del rispetto dei diritti umani in Egitto, Emmanuel Macron ha consegnato al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi la Grande Croce della Legion d’Onore della Repubblica francese, la più alta onorificenza del Paese.

Corrado Augias, giornalista e scrittore, cittadino italiano insignito a suo tempo della stessa onorificenza ora concessa al presidente egiziano oggi comunica la sua decisione di restituire quella onorificenza poiché, citando il poeta Orazio, “Sunt certi denique fines, quo ultra citraque nequit consistere rectum” (Vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto”).

Auspichiamo che le azioni del governo italiano siano ora all'altezza della richiesta di Giustizia e Verità impugnata dai genitori di Giulio Regeni e tanti cittadine e cittadini italiani.


Lettera di Corrado Augias al direttore di La Repubblica :

"Caro direttore, domani lunedì 14 dicembre, andrò all'Ambasciata di Francia per restituire le insegne della Legion d'onore a suo tempo conferitemi. Un gesto nello stesso grave e puramente simbolico, potrei dire sentimentale. Sento di doverlo fare per il profondo legame culturale e affettivo che mi lega alla Francia, terra d'origine della mia famiglia.

La mia opinione è che il presidente Macron non avrebbe dovuto concedere la Legion d'onore ad un capo di Stato che si è reso oggettivamente complice di efferati criminali. Lo dico per la memoria dello sventurato Giulio Regeni, ma anche per la Francia, per l'importanza che quel riconoscimento ancora rappresenta dopo più di due secoli dalla sua istituzione. Quando il primo console Napoleone Bonaparte la istituì, non voleva ridare vita ad un ordine cavalleresco ma certificare il riconoscimento di un merito, militare o sociale. Questa distinzione è importante in relazione al caso di cui si discute. Dove e quali sono i meriti del presidente Al-Sisi?

I riconoscimenti e le onorificenze degli Stati sono soggetti al mutevole andamento della storia, può accadere che un'insegna elargita in un dato momento si trasformi in un gesto imbarazzante per il comportamento successivo della persona insignita. In questo caso però le cose sono già chiare oggi. Il comportamento delle autorità egiziane, a partire dal suo presidente Abdel Fattah al-Sisi, è stato delittuoso, ha violato i canoni della giustizia, prima ancora quelli dell'umanità.

Ora l'Italia si trova di fronte un'autentica alternativa del diavolo. Rischia di sbagliare qualunque decisione prenda. Se manterrà normali relazioni diplomatiche con l'Egitto sembrerà tradire la memoria di un bravo ricercatore universitario torturato e ucciso per il lavoro accademico che stava svolgendo. Se li interromperà sarà sostituita, tempo pochi giorni, da altri Paesi in molti fruttuosi rapporti commerciali e industriali. In un caso e nell'altro una perdita secca, anche se di diversa natura.I rapporti tra Stati (come ogni rapporto politico) sono regolati dal calcolo, certo non dalla generosità né dall'amicizia, nemmeno dai legami secolari che pure esistono tra Italia e Francia. Però c'è un limite che non dovrebbe essere superato, ci sono occasioni in cui anche i capi di Stato dovrebbero attenersi a quella che gli americani chiamano “the right thing”, la cosa giusta. Credo che il presidente Emmanuel Macron in questo caso abbia fatto una cosa ingiusta".

Ecco il testo della lettera consegnata all'ambasciatore:"Gentile ambasciatore, le rimetto qui accluse le insegne della Legion d'onore. Quando mi venne concessa, il gesto mi commosse profondamente. Dava una specie di consacrazione al mio amore per la Francia, per la sua cultura. Ho sempre considerato il suo paese una sorella maggiore dell'Italia e una mia seconda patria, vi ho risieduto a lungo, conto di continuare a farlo. Nel giugno 1940, mio padre soffrì fino alle lacrime per l'aggressione dell'Italia fascista ad una Francia già quasi vinta.

Le rimetto le insegne con dolore, ero orgoglioso di mostrare il nastrino rosso all'occhiello della giacca. Però non mi sento di condividere questo onore con un capo di Stato che si è fatto oggettivamente complice di criminali. L'assassinio di Giulio Regeni rappresenta per noi italiani una sanguinosa ferita e un insulto, mi sarei aspettato dal presidente Macron un gesto di comprensione se non di fratellanza, anche in nome di quell'Europa che - insieme - stiamo così faticosamente cercando di costruire. Non voglio sembrare più ingenuo di quanto non sia. Conosco abbastanza i meccanismi degli affari e della diplomazia - però so anche che esiste una misura, me la faccia ripetere con le parole del poeta latino Orazio: “Sunt certi denique fines, quo ultra citraque nequit consistere rectum” (Vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto) .

Credo che in questo caso la misura del giusto sia stata superata, anzi oltraggiata.
Con profondo rincrescimento
".

 

lunedì 7 dicembre 2020

Lidia Menapace "Bruna", partigiana (per) sempre!

Lidia Menapace, la "compagna Bruna" è deceduta questa notte all'ospedale 'San Maurizio' di Bolzano dov'era ricoverata da alcuni giorni. Partigiana, donna, femminista ha saputo offrire un contributo prezioso al patrimonio culturale dell'Italia nata dalla vittoria sul nazifascismo: dal suo impegno come staffetta partigiana, all'esperienza come donna-parlamentare e femminista.
Cosa rimane oggi della Resistenza? - diceva nell’aprile 2009 - È rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho iniziato a chiamare di 'alzheimer organizzato' (…) Tutti noi temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te stesso (…) ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui confrontarsi non ha un futuro".
Anche nelle vesti di parlamentare, il suo pensiero era anzitutto rivolto alla difesa del bene comune agognato dalla vittoria della Resistenza e da realizzarsi attraverso una azione politica onesta: "(...)Noi che eravamo i più giovani e che non mettevamo nell’azione se non una rivolta morale invincibile, su cui fondava il gesto o il fatto politico. Per questo finiamo sempre per trovarci male nell’attività politica fine a se stessa, fatta solo di abilità, di furberia, di puro gusto del potere, ma senza tensione morale, senza un’idea di miglioramento civile, di testimonianza intelligente di rigore».
Anche nei giorni della pandemia, Lidia Menapace sognava di poter uscire per cambiare il mondo“Non vedo l’ora di uscire e andare nel piccolo giardino sotto casa Ma non vorrei che la liberazione dopo il virus, si riducesse solo a uscire di casa. (…) Immagino gruppi di persone che pensino a cambiare le cose dentro un grande movimento di cambiamento. Una vita politica in cui ciascuno vede cose che non funzionano e si impegni per trasformarle, in cui le cose sbagliate siano raddrizzate”.
Lidia Menapace "Bruna": partigiana sempre!


Fonte: Collettiva

Ci ha lasciati la "compagna Bruna". Aveva 96 anni, è deceduta questa notte all'ospedale 'San Maurizio' di Bolzano dov'era ricoverata da alcuni giorni, a seguito del Covid-19, Da vera insegnante ci ha educato con l'esempio della sua vita alla Resistenza, alla voglia di ricostruire dopo le macerie, all'impegno culturale e sociale. Sottolineato da un'interpretazione al femminile della vita e della militanza

Giovanissima, Lidia Menapace, "Bruna", prende parte alla Resistenza e nel 1964 è la prima donna eletta nel Consiglio provinciale di Bolzano. All’inizio degli anni Sessanta inizia a insegnare all’Università cattolica del Sacro Cuore con l’incarico di lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi letterari, incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato a seguito della pubblicazione di un documento intitolato “Per una scelta marxista”. Dopo essere uscita dalla Democrazia cristiana, simpatizza per il Partito comunista e nel 1969 viene chiamata dai fondatori nel primo nucleo de Il Manifesto cui offre per anni il suo fondamentale contributo. Membro di Rifondazione comunista fin dalla fondazione, nelle elezioni politiche del 2006 viene eletta al Senato. 

Da vera insegnante, Lidia Menapace ci ha educato con l’esempio della sua vita: la Resistenza partigiana, la voglia di ricostruire dopo le macerie civili e umane della guerra, l’impegno culturale e sociale. Le sue parole sagge, ironiche, leggere ma pesanti allo stesso tempo, la sua stessa fisicità, il suo profilo inconfondibile ci hanno fatto negli anni innamorare di lei. 

Buonasera a tutte e a tutti - diceva nel marzo del 2017 a Milano - sempre tutte e tutti, cioè sempre il linguaggio inclusivo. E sempre prima tutte e poi tutti, non solo per cortesia che quando c’è si ringrazia e quando non c’è non si può protestare, ma per diritto, perciò si può protestare: perché noi donne siamo di più. Quindi: contano i numeri, contano i voti. Non so se sapete di quanto siamo di più. All’ultimo censimento, quello del 2011, le donne risultarono essere due milioni e trecentomila circa più degli uomini. Quando lo dico, c’è sempre qualche patriarca gentile che mi dice: adesso vedrai che ci mettiamo subito in riga. Guardate che ci fu un milione di voti di donne più che di uomini al referendum 'monarchia-repubblica'; quindi non metteteci sempre così tanto tempo insomma… cercate di sveltirvi un po’… perché altrimenti nel 3003 siamo ancora qui che contiamo quanti dovremmo essere”. C’è in queste parole tutta Lidia, con la sua ironia, la sua schiettezza, il suo femminismo. Una anticipatrice: questa forse è stata la caratteristica più nitida ed esclusiva del suo lavoro.

Scriveva già nel 1993 nella prefazione al volume “Parole per giovani donne”: “Poiché ho ribattuto che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere”.

Ci ha regalato la definizione più suggestiva del movimento delle donne definendolo ‘carsico’, come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo è lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”, sua la proposta di una Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre. 

Cosa rimane oggi della Resistenza? - diceva nell’aprile 2009 - È rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho iniziato a chiamare di 'alzheimer organizzato' (…) Tutti noi temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te stesso (…) ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui confrontarsi non ha un futuro. Cosa ho imparato dalla Resistenza? A convivere con la paura e a superarla”.

Oggi siamo noi ad avere paura, Lidia. Senza di te ci sentiamo tutte e tutti (sempre prima tutte e poi tutti, ce lo hai insegnato tu!) un po’ più tristi, un po’ più soli. Qualche mese fa , così diceva Lidia Menapace: “Non vedo l’ora di uscire e andare nel piccolo giardino sotto casa Ma non vorrei che la liberazione dopo il virus, si riducesse solo a uscire di casa. (…) Immagino gruppi di persone che pensino a cambiare le cose dentro un grande movimento di cambiamento. Una vita politica in cui ciascuno vede cose che non funzionano e si impegni per trasformarle, in cui le cose sbagliate siano raddrizzate”. 

Ci proveremo a raddrizzarle queste cose, Lidia, ma senza di te sarà più difficile. Già ci manchi. Ciao, Lidia, ciao Bruna.