Fare Memoria. A Palermo, il 23 giugno 1992 è calata la notte quando Paolo Borsellino arriva, in ritardo, alla commemorazione organizzata dalle ragazze dai ragazzi dell'AGESCI a ricordare la Strage di Capaci.
Nel cortile di Casa Professa, il centro dei gesuiti palermitani, fra le fiaccole accese degli scout, un lunghissimo applauso sembra voler abbracciare Paolo Borsellino. Paolo Borsellino è turbato emozionato, e abbracciando Lui Giovanni Falcone, Francesca Morvillo Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani, comincia a pronunciare le parole di un discorso fra i più belli e significativi della storia del nostro Paese. In quel discorso, Paolo Borsellino parla di Giovanni Falcone ma in realtà spiega a tutti noi la sola motivazione che ha guidato la "bellissima esperienza" che hanno condotto insieme, Giovanni Falcone , Paolo Borsellino e tutti coloro che si sono sacrificati per la difesa dei valori della Giustizia: per questo motivo le parole pronunciate da Paolo Borsellino quella sera vengono ricordate sempre come "Il Discorso dell'Amore" .
Riportiamo un estratto di quel discorso che termina con le parole : "Dimostando a noi e al mondo che Falcone è vivo".
“Giovanni Falcone
lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo
avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo
uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte.
Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!
La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato.
Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene.
[…] Per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni […], le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità.
Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”.
Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvenne il fastidio e l’insofferenza al prezzo che per la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno, che ha finito per legittimare, che ha finito a sua volta per legittimare provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia, il loro codice di procedura penale. E adesso hanno fornito un alibi a chi, dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso, di lotta alla mafia non ha più voluto occuparsi.
In questa situazione Falcone andò via da Palermo.
Non fuggì ma cercò di ricreare altrove le ottimali condizioni per il suo lavoro. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Non è vero!
Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il lavoro di dieci anni.
E Falcone lavorò incessantemente per rientrare in magistratura, in condizioni ottimali. Per fare il magistrato, indipendente come lo era sempre stato. Morì, è morto, insieme a sua moglie e alle sue scorte e ora tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita, anche coloro che, per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato, hanno perso il diritto di parlare.
Nessuno tuttavia ha perso il diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta… La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora.
Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!
La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato.
Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene.
[…] Per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni […], le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità.
Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”.
Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvenne il fastidio e l’insofferenza al prezzo che per la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno, che ha finito per legittimare, che ha finito a sua volta per legittimare provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia, il loro codice di procedura penale. E adesso hanno fornito un alibi a chi, dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso, di lotta alla mafia non ha più voluto occuparsi.
In questa situazione Falcone andò via da Palermo.
Non fuggì ma cercò di ricreare altrove le ottimali condizioni per il suo lavoro. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Non è vero!
Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il lavoro di dieci anni.
E Falcone lavorò incessantemente per rientrare in magistratura, in condizioni ottimali. Per fare il magistrato, indipendente come lo era sempre stato. Morì, è morto, insieme a sua moglie e alle sue scorte e ora tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita, anche coloro che, per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato, hanno perso il diritto di parlare.
Nessuno tuttavia ha perso il diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta… La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora.
Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso
di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera;
facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci
impongono sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i
benefici che potremmo trarre , anche gli aiuti, le raccomandazioni, i
posti di lavoro; collaborando con la giustizia, testimoniando i
valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia: accettando in
pieno questa gravosa e bellissima eredità.
Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è
vivo”.